La guerra del Vespro Siciliano vol. 2. Amari Michele

La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - Amari Michele


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chiamò i presidi delle castella; e la mattina a dì, sulla spiaggia, parlando d’alto tra’ suoi baroni, esortava le genti. Dicea dell’ubbidienza alla santa sede; de’ lor maggiori combattenti sempre per la fede; s’ei balenò alquanto, s’era poi ravveduto; ammonito non potersi salvar l’anima del genitore, che sarebbe cruciata da atroci flagelli, finchè non si rendesse la Sicilia: onde tra la pietà del padre e del fratello, la prima avea vinto. «Voltici al buon sentiero, aggiugnea, quante offese non patimmo da questa indomabil genìa di Sicilia, che da noi apprese a combattere! Or eccola; minor di numero, minor di legni, e pur invasa di cotanta baldanza contro gli uomini e Dio! Gastigatela, Catalani!»

      Indi con tutta l’oste montò sulle cinquantasei galee ordinate in una linea di battaglia, con le ali distese, da soverchiare la minor linea nostra; e nel mezzo stette la capitana, col re e i figli dell’Angioino. A dirimpetto le s’era locato Federigo, standogli a dritta diciannove, a manca venti galee; e comandava alla poppa della sua nave un Bernardo Ramondo, conte di Garsiliato; alla prora Ugone degli Empuri, fatto conte di Squillaci; nel mezzo guardava lo stendardo reale Garzia di Sancio, con un gruppo di guerrieri fortissimi. Erano d’ambo le parti, noti, amici, congiunti; capitani due fratelli; come in guerra civile. Perciò più rabbiosamente, di qua di là mossero all’affronto, il sabato quattro luglio milledugentonovantanove, poco appresso il sorger del sole. Alle spalle de’ nemici la riva di San Marco, a dritta il capo d’Orlando; venian di fuori i nostri. S’udì squillo di trombe, fracasso di grida, tonfo di remi, e in un attimo sparve il mare di mezzo.

      Con le armi da gitto trassero gran pezza, e non a voto. Ma Gombaldo degl’Intensi, giovin feroce, vago di gloria, e fors’anco di vendicare il suo nome, deturpato dal fratello traditor della Sicilia, sdegnando quel combattere da lungi, tagliata la gomona che il legava alle altre galee, la nimica fila investe. Due navi gli furo addosso dalle bande, una da prua; dan di cozzo, vengono all’abbordo: e Gombaldo, con bell’ammenda della temerità, contro tal pressa difendeasi, ancorchè ferito, e fieramente ributtava i nemici. Strettasi pertanto la mischia per tutta la fronte, incominciò più micidial furia di sassi e dardi vibrati da presso: le navi ad urtarsi di prua, di costa, a dar co’ remi su i remi dei nemici; ostinatamente infino alla sesta ora del dì, con molto sangue, senza avvantaggio d’alcuno, si combattè. Federigo cercava Giacomo; estremo orror si vedea in questa battaglia, se non si trovavan di mezzo le altre navi, ingaggiate e accanite tra loro, che tolsero di riscontrarsi a’ fratelli. Sotto la sferza del sole, nel caldo del luglio, cocente quel giorno oltre l’usato, s’accese ne’ combattenti da fatica, da paura, da rabbia, dal perduto sangue una rabida sete. Nè vino, scrive Speciale, nè acqua la spegnea. Gomabaldo, trafelante, bruciato, date tutte le forze vitali in tante ore di bollente battaglia, cercò un attimo di riposo, s’adagiò sullo scudo, e spirò. L’ardire di costui preparava, la sua morte cominciava la rotta. Guadagnano i nemici alla fine la nave di Gombaldo: avviluppate tra loro con le gomone, co’ remi, mal s’aiutavano le altre nostre galee; quando si sentiron alle spalle ferir da sei navi ordinate a ciò da Ruggiero. Allora, perduta la speranza del vincere, allenarono nella difesa; soprastettero un istante; sei galee diersi alla fuga.

      Federigo, dicon le istorie, come vide piegare i suoi, risoluto a morire, chiedea di Blasco, che fianco a fianco spargessero il lor ultimo sangue; alla ciurma gridava: «Non restargli altro che la vita a dare per lo popol suo;» e per vero gittavasi disperatamente tra le navi nemiche, se non che d’un subito, vinto anch’egli da passione, caldo, fatica, stramazzò tramortito sulla tolda. Estrema ansietà allor nacque ne’ suoi più fedeli: che farebbesi della persona del re, mentre in ogni attimo era vita o morte? Il conte di Garsiliato pensava di rendere a’ nemici la spada di Federigo; Ugon degli Empuri gli die’ sulla voce; comandò di vogare a Messina; e per disperata forza di remi, la capitana involossi ai nemici, e con essa dodici altre galee. Blasco, che combattea non lasciando mai degli occhi il diletto suo principe, come vide fuggir la nave, posposto a lui ogni cosa, comanda a’ remiganti che il seguano, al suo alfiere che ravvolga lo stendardo; e l’alfiere, rispondendogli che non vedrebbe mai Blasco Alagona lasciar la battaglia, die’ del capo rabbiosamente sull’albero della galea, e cadde semivivo; la dimane spirò. Ferrando Perez il suo nome. Seguirono altri strani casi nella sconfitta. Vinciguerra Palizzi, testè creato gran cancelliere del regno, in cambio di Corrado Lancia che fu sì avventuroso da morire innanzi questo misero giorno255, Vinciguerra, per antico rancore cercato a morte dall’ammiraglio, sopraffatto da quattro galee, dopo bella difesa, saltò sopra una barchetta vicina a caso, e rifuggissi ad altra nave. Così ancora Alafranco di San Basilio e altri nobili, gittatisi a nuoto. I più, soverchiati dal numero, pugnarono con cieco furore, finchè saliti sulle navi i nemici, incominciò un macello. Perchè l’ammiraglio con sinistra voce urlava: «Vendicate Gian Loria!» e nobili e plebei immolati cadeano, con mazze, coltelli, mannaie, o scagliati in mare: tanto che sostarono i soldati per pietà; e l’ammiraglio pure a comandar sangue, a percorrere le prese navi, più atroce contro i Messinesi, dei quali fu grandissimo lo scempio. Federigo e Perrone Rosso, Ansalone e Ramondo Ansalone, Jacopo Scordia, Jacopo Capece e altri nobili di Messina perironvi; poi per istanchezza si cominciò a far prigioni, a dar di mano al bottino. Pier Salvacossa, fuggitosi non a Messina col re, ma ad Ischia, vilmente cercò la grazia de’ vincitori con render l’isola, ch’avea tre anni prima difeso con singolare virtù256. Diciotto galee andaron prese; da seimila de’ nostri morti nella battaglia, o dalla rabbia de’ vincitori. Questa fu la giornata del capo d’Orlando; perduta per incapacità di cui comandava, e minor numero e temerità de’ combattenti: ed allora la fortuna per la prima volta mostrò, lamenta Speciale trasportato da amor di patria, potersi vincere in naval battaglia i Siciliani, che per diciassette anni, in guerre diverse, in orribili scontri, e su lontanissimi liti stranieri, avean riportato senza interruzione incredibili vittorie257. Gli storici guelfi, credendo sparger vergogna su i Siciliani, perdenti sì ma con onore poco men che di vittoria, portan rovinate le sorti della Sicilia, tolta ogni difesa, certissimo il soggiogamento, se non che Giacomo nol volle; e a lui appongon anco che chiudesse gli occhi alla fuga di Federigo: non probabili cose, anzi non vere, come il seguito degli avvenimenti dimostrerà.

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      1

      Bart. de Neocastro dice Protontino, ch’era grado nell’armata, seguente all’ammiraglio, come il mostrano tre diplomi del 16 agosto 1299, per Pietro Salvacossa. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299, A, fog. 170, a t. e 171.

      2

      Bart. de Neocastro, cap. 101.

      Nic. Speciale, lib. 2, cap. 8.

      Il Montaner, che nella sua memoria confuse orribilmente la cronologia di questo periodo del regno di Giacomo in Sicilia, porta la tempesta sofferta dall’armata siciliana nel 1288 o 1289, con manifesto anacronismo.

      3

      Neocastro e Speciale, loc. cit.

      Anon. chron. sic., cap. 47.

      4

      Bart. de Neocastro,


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<p>255</p>

Nic. Speciale, lib. 4, cap. 14.

Il tempo della morte di Corrado Lancia si argomenta anco da un diploma del 15 giugno 1299, sottoscritto da Vinciguerra Palizzi cancellier del regno, in Testa, op. cit., docum. 17.

<p>256</p>

Del tradimento di costui fa fede anco un diploma di Carlo II, dato a 13 settembre tredicesima Ind. (1299), col quale son rimesse tutte lor colpe a Salvacossa, protontino d’Ischia, e agli altri abitanti che piegarono a parte siciliana, ma poi, succedentibus prosperis, dice il diploma, tornarono in fede. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C.

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 37, 38.

<p>257</p>

Nic. Speciale, lib. 4, cap. 18.

Anon. chron. sic., cap. 62 e 63, e diploma di Federigo, dato il 6 luglio 1299, ivi trascritto.

Veggansi ancora, Annali di Forlì, in Muratori, R. I. S., tom. XXII, pag. 174.

Cronaca di Bologna, ibid., tom. XVIII, pag. 304, dove è errato il giorno della battaglia, e portato il numero delle nostre galee a 33, delle nemiche a 55.

Cronaca di Cantinelli, presso Mittarelli, Rer. Faventinarum script. Venezia, 1771, pag. 311.

Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

Tolomeo di Lucca, ibid., tom. XI, pag. 1303.

Gio. Villani, lib. 8, cap. 29, che si mostra assai male informato dei fatti di tutta questa guerra. Ei fa montare le galee nemiche a 70, e le nostre a 60, e dice Federigo Doria ammiraglio dell’armata siciliana. I nostri storici tacciono il nome di questo ammiraglio.

Una delle galee siciliane prese in questa battaglia fu prestata dal governo di Napoli a Francesco Ildebrandini di Firenze. Diploma dato di Napoli a 20 luglio duodecima Ind. (1299), reg. cit., 1299, A, fog, 174, a t.