La plebe, parte I. Bersezio Vittorio

La plebe, parte I - Bersezio Vittorio


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non abbandonò il suo ripostiglio. L'impressione prodotta in lui dalla vista del regio corteo era già scancellata pel ridestarsi più vivo del sentimento e del desiderio che lo avevano tratto colà. Allungato il collo di dietro la pianta che lo nascondeva, egli guardava ansiosamente le eleganti femminee forme che non cessavano dallo sfilargli dinanzi. La carrozza su cui egli aveva tutto concentrato il suo pensiero tardava a sopraggiungere. L'orchestra del ballo gettava giù per le ampie volte dello scalone le sue armonie febbrilmente concitate. Quella musica e gli acri profumi di quei fiori che lo circondavano, salivano al cervello del nostro povero giovane come il principio d'un'ebbrezza fatale, come lo sventurato solletico d'una tentazione indefinita.

      Era sua intenzione di non abbandonare il suo ripostiglio, ma secondo la fatta promessa, Francesco Benda, tosto che il potè, venne affrettatamente a raggiungerlo.

      – Eccomi a te, diss'egli a Maurilio, fattolo venire a mezzo il vestibolo. Che cos'è che mi dicevi? Che avevi mestieri di venir qui? Perchè? In che cosa posso giovarti? Vuoi forse parlarmi più agiatamente e in segreto? Posso condurti in una riposta cameretta qui sopra, segregata dalla festa…

      – No, no: s'affrettò ad esclamare Maurilio.

      L'imbarazzo di proseguire nella risposta gli fu accresciuto dalla profonda emozione che di botto s'impadronì di lui. Dalla carrozza ferma in quell'istante sotto l'atrio era uscita e veniva verso i due giovani la persona che Maurilio stava con tanto desiderio aspettando.

      Francesco Benda non fu in caso di scorgere il turbamento del suo compagno, perchè ancora egli era in preda ad uno per nulla minore. Mandò una esclamazione, e senza più badare all'amico, tutto preso com'era da un nuovo potentissimo sentimento, si spinse innanzi ad incontrare e salutare le due donne e l'uomo che le accompagnava.

      L'attempata ed il cavaliere accolsero il giovane avvocato con molto altiero sussiego e risposero al suo saluto con modo di superba superiorità: ma la giovane gli diresse un gentile sorriso che ben valeva a scancellare ogni sinistra impressione per le maniere degli altri.

      Benda si mise allato alla vecchia patrizia e venne accompagnando le due donne verso lo scalone. Il cavaliere s'era fermato un istante per dare qualche ordine al domestico dal lungo soprabito che seguiva col cappello in mano. La giovane all'altro lato della signora attempata passò proprio accosto a Maurilio fermo al posto in cui si trovava, come se vi avesse piantato le radici, incapace di fare il menomo atto, di dire la menoma parola, quasi di trarre il rifiato.

      Ella passò colla stessa indifferenza con cui sarebbe passata presso ad una statua o ad uno spigolo della parete, e le vesti leggiere ed eleganti che avvolgevano come d'una nube candidissima la gran dama, sfiorarono frusciando i rozzi, umili panni del povero trovatello. Questi sentì un brivido scuotergli le intime fibre ed un subito gelo figgergli il sangue nelle vene, arrestargli il battito del cuore; una nebbia gli passò innanzi agli occhi e temette un istante cadere. Chi l'avesse guardato in quel punto, avrebbe esclamato: – Gran Dio! Quell'uomo sta per morire.

      – Signora marchesa: diceva alla vecchia Francesco Benda, con voce un po' commossa, guardando la giovane: mi permette ch'io le offra il mio braccio?

      – Grazie, signor Benda: rispondeva con altiera gentilezza la marchesa, stringendo vieppiù alla persona il suo braccio, come per rifuggire dal contatto di quello che le veniva offerto. Virginia, soggiunse ella poscia, volgendosi alla giovane, vedi un po' se i miei fiori in capo non sono andati fuor di posto?

      – No, zia: rispose la ragazza con una voce soave che all'orecchia dell'estatico Maurilio suonò come la più dolce delle armonie.

      In quella, il cavaliere che accompagnava quelle dame, finito di dare i suoi ordini al servitore, si affrettava a raggiungerle; e Maurilio trovandosi sul suo passaggio per la via più corta a recarsi allato alla bella giovane, egli senza il menomo riguardo lo ributtò con un urtone come si fa con un inciampo qualunque che vi capita tra i piedi.

      Maurilio barcollò e di presente ebbe il sangue acceso da una subita ira che gli salì insieme con la vergogna alla testa. Si dirizzò della curva persona, e saettò uno sguardo pien di minaccia sopra il suo oltraggiatore, il quale, senza pur volgersi, senza badargli dell'altro, continuava il suo cammino, venendo a fianco della ragazza cui abbiamo udita chiamare Virginia, alla quale e' parlava lezioso e sorridente.

      Il nostro povero giovane ebbe un istante in pensiero di arrestare quell'elegante insolente e farsi dar ragione del tratto. Mosse un passo verso di lui; ma si contenne tosto. Che avrebb'egli detto? Ella si sarebbe volta a guardare chi fosse quest'importuno interrompitore; ella che era passata senza pur vederlo, ella che non sospettava nemmanco l'esistenza di lui che in essa aveva posta l'adorazione dell'anima sua. Ella avrebbe ascoltato le parole che egli avrebbe dette. Come osar parlare sotto il suo sguardo? E non sarebbe egli comparso troppo da meno in tutto, appetto a quei due eleganti e forbiti vagheggini che lei accompagnavano?

      La piccola brigatella era già sullo scalone, e quindi tolta al suo sguardo, ed egli rimaneva ancora immobile a quel posto. Un domestico, che passò e lo guardò curiosamente, lo fece ricordare del dove si trovasse. Prima che l'altro venisse, come mostrò intenzione, a domandargli che facesse colà, Maurilio si sferrò di luogo e corse sotto l'atrio per partire.

      S'imbattè quasi da urtarsi in un elegante giovinotto, sceso allor allora da un bel legnetto ad un cavallo. Maurilio strabiliò credendo riconoscere in lui quel suo antico compagno d'infanzia che aveva lasciato, non era forse nemmanco un'ora, vestito di poveri panni, nella lurida bettola di mastro Pelone.

      – Gian-Luigi! Esclamò egli a mezza voce.

      Quell'altro portò rapidamente al naso l'indice della mano destra come per intimargli silenzio, e proseguì verso lo scalone con tutta indifferenza, come se non avesse udito quelle parole, come se la faccia di colui che aveva incontrato gli fosse affatto sconosciuta.

      – È dunque vero che Gian-Luigi vive da signore; pensò Maurilio. Che mistero è mai questo?

      Quando era già per uscire del portone, un uomo gli passò dinanzi e si volse a guardarlo ben bene nel volto, ed a Maurilio parve aver già visto altra volta quella figura. Ed aveva ragione; l'aveva vista poc'anzi nell'osteria di Pelone altresì, perchè quell'uomo non era altri che quel tal messer Barnaba che spaventava sì forte l'onesto bettoliere.

      Per ragione del suo ufficio, l'agente della polizia s'era trovato colà alla venuta della Corte, aveva visto la sollecitudine affannosa di Maurilio per intromettersi nel palazzo, i ratti colloquii coll'avv. Benda, e finalmente l'incontro coll'elegante giovanotto venuto da ultimo. Era suo mestiere l'osservar tutto, il tener conto di tutto e il trarre deduzioni da tutto. Troppo lontano per udire le parole mormorate da Maurilio nel trovarsi a fronte l'antico compagno d'infanzia, s'era pur tuttavia accorto della sorpresa che il primo aveva provata in quell'incontro.

      – To', to'; aveva egli esclamato fra sè. Questo giovane deve conoscere qualche cosa del dottor Quercia il cui modo di esistenza è ancora un problema per me. Chi sa che costui non mi possa servire d'aiuto per iscioglierlo, questo problema? Ma per ciò bisogna ch'io conosca prima di tutto chi è costui.

      E passatogli prima dinanzi per vederlo meglio e stamparsene i lineamenti nella infallibile memoria, lo lasciò poscia andare per la sua via, e lo venne con santa pazienza seguitando dalla lungi traverso la nebbia e la neve che calava giù più densa e a larghi fiocchi che mai.

      E noi faremo lo stesso, riserbandoci di venir più tardi a dare un'occhiata in questa splendida festa, dove ci aspettano alcune scene non indifferenti allo svolgimento del nostro dramma.

      CAPITOLO XI

      Maurilio giunse sino alla metà della piazza di San Carlo, e poi si fermò. Il suo sguardo acceso corse alle alte finestre del palazzo da cui pioveva tanta luce nella tenebria della notte. Pareva che volesse penetrarvi per entro, e con esso il suo spirito. Un'intensa aspirazione di desiderio vedevasi dipinta sul volto di lui, la quale tenevalo colà immobile coi piedi affondati nell'umido strato della neve, sotto i densi fiocchi che gli cadevano sulle spalle.

      Ad un punto, con un evidente sforzo ch'egli fece, tolse gli occhi da quel bagliore in cui s'affissava, e li reclinò su se stesso. Un profondo sospiro dapprima gli uscì dal petto, poi un amarissimo ghigno gli stirò le pallide labbra, e quindi ruppe in una secca risata


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