La plebe, parte I. Bersezio Vittorio

La plebe, parte I - Bersezio Vittorio


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mantenuto il suo giuramento.

      Francesco Benda, come ho già detto, non ostante il suo modo signorile di vita, non aveva scemato d'un punto l'amicizia che lo congiungeva a questi tre compagni, e veniva di spesso a visitarli.

      Così vivevano essi, la moglie di Vanardi, che si chiamava Rosa, una buona creatura tutto ciarla e tutto cuore, facendo da donna di casa per tutti; quando un mattino Romualdo, entrato di buon'ora nella stanza di Selva, che non avea visto tornare la sera innanzi, lo trovò seduto al capezzale del proprio letto, sostenendo amorosamente colle mani la testa abbandonata d'un giacente a volto sparuto, il cui sonno l'irrequietudine soltanto distingueva dall'apparenza della morte.

      Romualdo stupito fu per muovere un'interrogazione, e Giovanni fattogli cenno tacesse, depose con attenzione sovra i cuscini il capo ardente dell'addormentato e disse sotto voce:

      – Lo riconosci?

      Romualdo rispose col capo di no.

      – Egli è quel giovane che venne due giorni sono a domandarci lavoro, e che noi mandammo a quella terra.

      Quindi, tratto l'amico nell'altra stanza per potere più liberamente discorrere, soggiunse:

      « – Un poveretto che ho salvo dal suicidio. Ieri sera mi sono fermato un po' più tardi in casa la Adelina; e ciò ha fruttato a me una buona azione, a costui la vita. Egli era là sul ponte di Po, che fissava lo sfilar dell'acqua sotto gli archi con quell'occhio che l'affamato un tozzo di pane. Lo vidi tra l'ombre spiccarsi per un salto, non poterlo, ricadere a terra. Accorsi: era svenuto. Lo riconobbi tosto e sentii quasi un rimorso del non averlo potuto soccorrere quando se ne venne qui elemosinando pudicamente lavoro. Che cosa fare? Tutte le botteghe erano chiuse, e non passava un'anima per colà. Me lo presi in braccio e venni più affrettatamente che potei verso la più vicina spezieria, deliberato a fracassare anche la porta per entrarci. Egli tornò in sè. Volle essere deposto in terra e camminare. Ma nol poteva, ed io dovetti sorreggerlo. Mi disse, quasi in delirio, che non aveva famiglia, non tetto, non pane, non più coraggio: lo lasciassi morire. – Ed abbandonato sarebbe morto senza fallo. La farmacia non mi venne aperta per quanto chiasso facessi; ma si apri il fondaco d'un liquorista, ed io gli feci bere un bicchierino di rhum. Questo gli diede forza, ma gli salì con impeto al cervello. Uscimmo, ed io lo accompagnava sostenendolo, e non sapevo dove. Ei si mise a parlare. Furono strani discorsi i suoi, in cui c'era un po' di tutto: scienza e poesia, erudizione e mattane fantastiche, ingegno e pazzia, un farnetico d'infermo, un vaneggiamento della febbre, un racconto straordinario di Hoffmann. Ma in quella confusione di cose balenava a vivissimi sprazzi il genio. Stupito, commosso, talvolta rapito d'entusiasmo io non credeva a me stesso. Oh! come ha parlato questo demonio!.. E poi ha uno sguardo in que' suoi occhi verzigni che incanta; una testa che non è d'essere volgare; una fronte tanto vasta da posarvisi comodamente tutto un mondo di pensieri.

      «Ho di subito determinato associarlo al nostro destino, e gli ho proposto di esserci fratello. Tacque un istante, tremò di tutte le membra e poi disse con accento da scendere nell'anima:

      « – Dio v'ascolti!

      «Venne meco e qui il suo male sovraccogliendolo di nuovo, dovetti io stesso spogliarlo e metterlo a letto. Tutta la notte delirò con parole tronche, inintelligibili. Ora corro per un medico, lo faccio guarire, e lo avremo nuova recluta nella nostra piccola schiera. Egli mi ha detto ad un punto mostrandomi questo suo piccolo involto:

      – Qui, è tutto ciò ch'io posseggo; ma qui (e si toccava la fronte), qui sta la mia ricchezza.

      «Lo ha detto con tale accento di convinzione e di verità che non ne ho riso, te lo giuro. Se non avesse una così bella testa direi che gli è un avventuriere; se non m'avesse incantato colle sue parole, avrei sentito compassione della sua miseria, ma non l'avrei amato così ad un tratto. Lì dentro c'è una grand'anima. Quando l'udrai, l'amerai anche tu.»

      In quel piccolo involto che il povero giovane aveva seco non si contenevano che pochi libri: Dante – Orazio – Virgilio – Macchiavelli – La Scienza nuova del Vico – il Trattato di economia politica di G. B. Say, – ed un manoscritto tutto spiegazzato ed a strappi, su cui stava scritto a grossi caratteri: – Farragine.

      Romualdo diede la sua approvazione a Selva con una stretta di mano; gliela diede eziandio Vanardi; e stettero aspettando con ansia lo svegliarsi del nuovo venuto.

      Ed ecco che dalla stanza di Selva un grido richiama la loro attenzione. Ci corrono e trovano lo sconosciuto che, levatosi a sedere sul letto, getta le magre gambe fuori delle coltri per torsi di là, infuocato nelle guancie, gli occhi orribilmente fuor del punto, le mani agitantisi in moto convulso.

      Giovanni fu in un salto allato al giovane e lo trattenne. Il delirante gli si abbrancò alle braccia e glie le serrò da fargliene sembrare le sue mani tanaglie di ferro. Le carni gli scottavano.

      – Che avete? che volete fare? Gli domandò Selva; e l'altro, fissandogli negli occhi i suoi tutti smarriti, con voce affannosa, a balzi e vibrata, gli disse:

      – Trista cosa è la vita! Un'empia lotta, che vince eterna la sventura. Ai primi passi tu se' di questa via d'affanni, e ti par che sorrida all'uom la terra felicemente, e duol supremo estimi il mister della morte. Oh folle! oh folle! Io spesso, il credi, ad invidiar mi trassi la sepolcral de' morti ignota pace; e i dolor della creta maledissi, che s'assuperba nel chiamarsi viva.

      – Misericordia! Esclamò Romualdo, giungendo le mani, e' parla in una specie di versi. È matto!

      – L'ho detto io che era un fratello: disse Giovanni. È poeta.

      Poi, facendolo ricoricare a forza, disse al delirante:

      – State quieto; e se avete bisogno di qualche cosa, ditecelo.

      – Pace! Ripigliava l'altro. Pace! Pensi tu che l'abbiano da godere i morti?.. Se tutto di noi va in cenere, bene! Un buffo di vento che spegne una candela, e buona sera. Se lo spirito non muore, come avrà pace? Come, perchè spogliatosi di questi ceppi di carne, sarà egli giunto di botto alla fine dei suoi travagli?.. Il rimedio sarebbe troppo facile… Non sai? Io qui dentro ci ho un tumulto che è peggio d'ogni battaglia… Ci bollono tante cose! Tante facoltà che lottano, tanti pensieri che si cozzano, tante immensità che non furono mai dette, perchè non si possono dire. E tutto questo avrà da finire senza conclusione colla poca vita della mia materia?.. Guardate! se ne dovrebbe piangere lagrime di sangue. L'anima continuerà a vivere e tramenarsi di dolore in dolore, di dubbio in dubbio, di morte in morte, donec longa dies, perfecto temporis orbe, concretam exemit labem, purumque reliquit ætherium sensum atque aurei simplicis ignem. Lo ha detto con indovinamento di poeta e con sentimento di cristiano il pagano Virgilio.

      I tre amici che tenevano il delirante alle braccia si guardarono spaventati da quel latino.

      – Io ho qui intorno al fronte un cerchio di ferro arroventato che m'arde e mi costringe in questa poca sfera lo spirito immortale… Oh! se potessi allargare il mio cranio!.. Se non fosse di questo cerchio, il mio spirito ha penne tali da pervolare tutto l'infinito degli spazi, di mondo in mondo, di sole in sole, di plaga in plaga di questo gran circolo della creazione che ha il centro dapertutto e la circonferenza in nessun luogo… sino ad andar posare il capo sulle ginocchia di Dio! Questo cerchio fatale che mi stringe la fronte, lo sapete? gli è il Zodiaco. I suoi segni mi danzano intorno un trescone d'inferno… Li sento che mi cantano: – «Tu se' schiavo qui, tu se' condannato alla nostra carcere… va là, va là che hai da gingillarti per un pezzo in una burlesca contraddanza fra il cancro e lo scorpione!» Pazienza! Fate fiammare la vaporiera. Io corro il mio regno su d'una via ferrata fatta sull'etere cosmico. Voglio visitare la Vergine che è l'innocenza, e la Libbra che è la giustizia; ma la seconda fu trovata coi pesi falsi, e la prima s'è acconciata a stare in via de' Pelliciai… Il mio regno! È quello del pensiero; quello dove si gettano i germi del vero, nasce il sofisma e si raccoglie la confusione… Inchinatemi. Io sono l'ingegno dell'umanità dagherotipato sulla lastra d'un uomo. Datemi la penna. Essa è il mio scettro; in mia mano avrà ad essere una spada d'Alessandro da troncare l'eterno nodo gordiano dell'astruso problema che è la società all'uomo, che è l'uomo a se stesso.

      Selva affissandosi nella faccia contratta del vaneggiante, disse:

      – Poverino! Qui c'è uno squilibrio


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