La plebe, parte I. Bersezio Vittorio

La plebe, parte I - Bersezio Vittorio


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Romualdo, gli è pazzo per davvero.

      – Non tardiamo a domandare un medico: disse Vanardi; e la sua osservazione fu trovata la più giusta.

      Il medico, venuto sollecitamente, pronunziò:

      – È una famosa febbre cerebrale, e bisogna in fretta in fretta salassare alla brava.

      Rosa, la moglie del pittore, da quella buona donna che era, si piantò al capezzale del malato, e gli fece un'assistenza da suora di carità. Francesco Benda, senza pur dire una parola agli amici, provvide del suo ad ogni spesa. Il giovane fu salvo per allora; ma il medico, dando siffatta assicurazione a Giovanni Selva che ne lo interrogava con molto interesse, come quegli che aveva posta una subitamente profonda affezione nello sconosciuto; il medico soggiungeva:

      – È salvo per ora; ma il germe del male non è distrutto. Quello è un organismo che porta seco un elemento potente di sua distruzione, il quale alla prima circostanza opportuna può scoppiare di nuovo ed accopparlo. Deve aver sofferto troppo.

      Maurilio (poichè desso era il giovane raccolto da Selva), salvato di quella guisa dalla morte per opera di Giovanni prima, di tutti gli altri di poi, circondato d'ogni amorosa cura, entrò in quell'amichevole consorzio, ne divenne anzi parte essenziale, ne fu amato come si ama una buon'opera nostra, ed amò come glie ne faceva obbligo la riconoscenza che era il solo ripago ch'egli per allora di tanto bene fattogli potesse dare.

      Quand'egli fu guarito del tutto, con una semplicità di nobile orgoglio, disse agli amici:

      – Ora aiutatemi a trovar lavoro.

      Selva gli propose di collaborare con lui nelle sue opere letterarie; Maurilio sorrise un po' amaramente.

      – Io vorrei, diss'egli, un lavoro che fruttasse il pane; e la nostra letteratura del giorno d'oggi non è tale.

      Aveva una bella calligrafia. Si fece scrivano. Ebbe la fortuna di conoscere un causidico che gli diede atti di lite da copiare. La sua sollecitudine nel lavoro e la nitidezza della sua scrittura valsero a fargliene avere di molto di questa bisogna; e fra il copiare e il tener le ragioni di qualche mercatante, dandoci dentro al lavoro giorno e notte, era giunto a guadagnarsi dalle ottanta alle cento lire al mese.

      Risanato, Maurilio non era mai più venuto in propositi che somigliassero a quei suoi farnetichi del primo giorno; ed ogni qualvolta Selva aveva voluto metterlo in siffatti discorsi, egli o s'era allontanato, od aveva pregato lo lasciasse tranquillo.

      Parlava di rado; talvolta calava a sorridere e barzellettare; era buono, affettuoso, gentile il più spesso; ma a tratti, senza un visibile perchè, si faceva aspro, triste e scontroso. Allora la sua taciturnità s'accresceva, come pure la scarna pallidezza delle sue guancie, stava in sè, solo il più che potesse, presso che l'intiera notte vegliava passeggiando, quasi non mangiava, e si dava per disperato all'opera manuale del copiare. Sulle prime gli amici avevano cercato svagarlo e rompergli quegl'insulti splenetici di indefinita, profonda melanconia, ma poi, visto che gli era peggio, lo compativano, tolleravano, e vedendolo soffrire, soffrivano ancor essi.

      Quando l'avevan visto, oppresso da troppo lavoro, starne le tante ore col petto incurvato al tavolino, in danno della sua salute, ne l'avevan voluto dissuadere, ma invano: gli avevano offerto con insistenza il loro aiuto, ed invano eziandio.

      – Lasciatemi fare: diceva egli. Ne ho bisogno. La mano si affatica, ma la testa riposa. Se fossi stato robusto da tanto, avrei preso volentieri in mano la stiva dell'aratro, e sarei stato più utile al mondo.

      Selva lo rimproverava alcune volte di che, con tanto ingegno quanto era il suo, nulla facesse, nulla imprendesse, nulla tentasse da recar fama al suo nome e giovamento al mondo.

      All'udir menzione della fama lo strano giovane sorrideva compassionevolmente e recitava i versi di Dante: «Non è il mondan rumore altro che un fiato, ecc.»

      – Che cosa cale a me della fama? Il mio nome è nulla, voglio essere tale. Non è un nome degno di risuonare nei secoli. Giovamento al mondo? quello sì lo vorrei. Ma se niente opero gli è perchè niente mi si presenta ch'io possa fare utilmente. Intanto penso.

      Ma da qualche tempo l'occasione pareva venuta di poter fare alcuna cosa. Un'opera lentamente preparata era sul punto di vivamente intraprendersi con infinito ardore e colle più lusinghiere speranze. Gli amici tutti di Maurilio si erano ad essa consecrati col più vivo trasporto dell'anima; ed ancor esso vi si era accinto, ma con un certo maggior riserbo che non era freddezza ma quasi una preoccupazione di quesito diverso e forse anco superiore.

      Quale fosse quest'opera lo vedremo tosto.

      Entriamo intanto nella stanza che ho detto, la quale era appunto quella abitata da Maurilio, e vediamo insieme i quattro amici raccolti.

      CAPITOLO XII

      Maurilio rispose appena al saluto degli amici, gettò a casaccio sopra un attaccapanni il suo mantello fradicio e il suo cappello coperto di neve, e s'accostò al fuoco di cui guardava la fiamma vivace con una specie di desìo e d'amore. Senza profferir parola staccò dalla parete una pipa, la caricò di tabacco, l'accese con un ramoscello di legna ardente che tolse dal fuoco, sedette presso presso al camino, pose i suoi piedi bagnati nella calda cenere ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, la faccia alle mani, stette lì, avvolgendosi nelle nubi di fumo della sua pipa, fissando lo sguardo nelle capricciose oscillazioni della fiamma crepitante.

      Romualdo, Selva e Vanardi parevano ancor'essi sopra pensiero. Una certa aspettazione inquieta si dipingeva nelle loro franche ed aperte sembianze. Non parlavano, non lavoravano, non leggevano. La loro allegria naturale scorgevasi esser trattenuta e doma da qualche preoccupazione più che grave.

      Dopo un poco Giovanni Selva si alzò e venne presso al camino ad accendere ancor egli il suo sigaro che gli si era spento in bocca.

      Si chinò verso il fuoco per raccattar colle molle un pezzetto di brace accesa, e guardò di sottecchi la faccia scura di Maurilio, che si arrostiva immobile al calore di quella vampa.

      – Tu non hai visto Mario Tiburzio? Domandò egli a mezza voce.

      Il nome pronunziato da Selva, parve un talismano che rompesse un incanto. Maurilio si scosse, gli altri due giovani si levarono e vennero ancor essi vicino al fuoco.

      – No: rispose Maurilio, togliendosi alla sua meditazione e volgendosi ai compagni. Credevo anzi di trovarlo già con voi.

      – È veramente in ritardo: disse Romualdo: e ciò non è punto nelle sue abitudini, quindi non è molto rassicurante. Tanto più che per questa sera ci aveva annunziato delle comunicazioni e delle novelle importantissime.

      – L'altro dì infatti: aggiunse con mal celata trepidazione Vanardi, che era il più timoroso fra i quattro: egli ci disse che parevagli d'essere sorvegliato. Purchè non gli sia capitato malanno? Potrebbero averlo scoperto, preso, e allora…

      – Via, via: interruppe Selva: non isgomentiamoci così facilmente. Nella strada in cui siamo entrati conviene avere fermezza, risoluzione e coraggio, e da una parte esser pronti al peggior male, dall'altra confidare nel bene.

      – Tu hai ragione: rispose Vanardi; ma però non sei padre. Io sento sempre negli orecchi i pianti de' miei due bimbi che mi cantano l'antifona, che se il governo mi manda a villeggiare a Fenestrelle, essi non avranno di meglio che crepare di fame.

      – Fenestrelle! Esclamò Giovanni ridendo, ma forse non con tutta sincerità. Tu ci credi? Quella è la befana con cui il nostro paternissimo regime fa paura a quel fanciullone del popolo. Va là che non avremo la fortuna d'esser fatti martiri a sì buon mercato. La nostra polizia non capisce nulla: l'insolente assolutismo che ci opprime, è, senza saperlo, il colosso dai piedi di creta. Crede esser forte e posa sopra una base che un buffo di vento può sovvertire. Quando venga il giorno che stiamo preparando, l'uragano popolare levatosi al santo grido di libertà, spazzerà via la tirannia nostrana e le baionette straniere che la sorreggono e le danno da sole la forza.

      Maurilio volse la sua faccia intelligente, in cui era una lieve espressione d'ironia, verso Giovanni Selva, e gli disse:

      – Queste sono belle frasi, da poeta, qual tu sei, ma non tolgono che Antonio abbia ragione. Le frasi


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