Il Regno d'Etruria. La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero. Eugène-Melchior de Vogüé

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      Il Regno d'Etruria / La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero

      IL REGNO D'ETRURIA

      Signore e Signori,

      Alla Società di pubbliche letture, chiamandomi a Firenze, piacque concedermi di parlarvi della vostra storia nella mia lingua nativa. Mi scuserò con essa e con voi; e quasi avrei intenzione di scusarmi con coteste nobili figure di Luca Giordano, avvezze ad ascoltare l'idioma che Paul Louis Courier, ellenista di gusto così squisito e sicuro, affermava “la più bella delle lingue viventi„. Ma un forestiero mal volentieri si arrischia a balbettare la purissima lingua italiana a un'eletta di ascoltatori toscani.

      Eppure, a Firenze io non mi sento del tutto straniero; e ci torno per pagare un tributo a quei luoghi che furono i primi educatori del mio intelletto. Consentite che io mi lasci vincere dai personali ricordi: perchè dinanzi a ognuna di queste pietre eleganti, così sature di bellezza e di storica maestà, io ritrovo le impressioni lontane che la vita non potè cancellare.

      Uscito di collegio, m'avevano condannato a studiar legge in una delle nostre città di provincia: scappai, piantai lì le Pandette e le Istituzioni, e spiccato il primo volo di viaggiatore venni a posarmi in Firenze, dove passai sei mesi nello studio dei vostri monumenti, delle vostre arti e della storia vostra. Cotesta iniziazione fu per me una vera ebbrezza: scopersi il mondo della bellezza all'aurora della vita; e qui cominciai a scrivere, ma fortunatamente per i miei contemporanei e per me, ho perduto i miei scritti fiorentini: erano una tragedia in versi sul conte Ugolino che divorava i figliuoli per conservar loro il padre. Avendola perduta, ho qualche volta l'illusione di credere che fosse stupenda.

      L'amore alla storia, alla storia viva, drammatica, scritta su tutte le vostre mura, s'impadronì di me a Firenze, e mi distolse da quella poesia da collegio. Già fin d'allora, leggendo Dino Compagni e i vostri altri antichi cronisti, mi trovai dinanzi ad uno dei problemi insolubili che s'impongono allo spirito umano: come si spiega l'eterna contradizione che esiste fra le cupezze, le follie, le crudeltà di cui parlano i libri, e le cose sorridenti, meditative, pacifiche che qui parlano agli occhi? Ecco un luogo d'elezione, dove la natura e gli uomini hanno cooperato per creare di nuovo quell'armonico capolavoro che dopo Atene non s'era più visto. Fra le linee di questi orizzonti felici, che così bene si accordano, sembra che l'uomo si sia strappato di dentro la ragione e la grazia. Firenze si mostra nel cielo dell'intelligenza e dell'arte, sotto la sua luce dorata, come la vediamo in questa stagione dell'anno, fra la nebbia rosea e bianca dei mandorli e dei peschi che fanno una cintura di fiori alle sue cupole, a' suoi campanili; è il giardino in cui tutti i fiori del genio umano sbocciarono, con un'esatta disciplina d'eleganza prestabilita, di saviezza tranquilla, e come in virtù d'una fraterna premeditazione della terra e dell'uomo per avverare finalmente il gran sogno di tutti noi, cioè una vita perfettamente bella nel riposo d'una perfetta felicità.

      Ma non è che un miraggio! Consultate la storia: qui, come ad Atene, essa ci mostra nel giardino incantato e perpetuamente devastato, una sanguinosa arena in cui gli uomini si lacerano fra loro, un campo di battaglia in cui le nazioni si accapigliarono furiose nel corso dei secoli, con le loro concupiscenze, accese dalle tentazioni di questa perfetta bellezza.

      Oggi, come quando leggevo Dino Compagni, ho spogliato alcune pagine della storia fiorentina, ma di tempi a noi più vicini; e ci ho ritrovato quel doloroso problema, ci ho ritrovato l'uomo che si accanisce a recare il turbamento e il disordine ne' luoghi in cui sembrava splendere una divina potenza pacificatrice. Vi parlerò liberissimamente di coteste cose passate, di quel confuso marame d'istinti, d'interessi e di idee che, al principio del nostro secolo, l'onda rivoluzionaria francese rovesciò sulle terre d'Italia. E mi ricorderò che qui, con tante altre lezioni, mi fu data la norma per giudicare della storia. È nella Galleria degli Ufizi una tavola d'un ignoto quattrocentista: una Madonna col Bambino, pittura di pregio mediocre, opera incerta di alcun povero scolaro di Giotto. Pure, ho sempre sul mio scrittoio la fotografia di quel quadro. Sotto cotesta Vergine, che fu certamente affissa in qualche pretorio d'un palazzo di giustizia, una mano indica allo spettatore ed al giudice l'iscrizione in grandi lettere gotiche: “Odi l'altra parte.

      Odi l'altra parte! la Madonna degli Ufizi ci porge così la prima regola dei nostri giudizi nella vita, nella storia, in quella scienza embrionale ed oscura, che noi chiamiamo, mentre è ancora in fieri, politica, e che un giorno sarà storia pur essa.

      La vostra Società di letture ebbe la felice ispirazione di assegnare al corso di ciascun anno un periodo di storia. Vi hanno già parlato in addietro del Medio Evo e del Rinascimento; vi narreranno in questa serie la vita italiana durante le tempeste della Rivoluzione e dell'Impero. In questo ciclo ho scelto un episodio minuscolo, la breve esistenza del Regno d'Etruria. Ma prima di raccontarvelo, permettetemi di fare alcune riflessioni sulla legge misteriosa che trascina i nostri due paesi entro una medesima orbita.

      Anche se differiscono i tempi, il fondo dell'uomo rimane invariabilmente il medesimo. Di questo permanenti rassomiglianze è facile persuadersi paragonando i sanguinosi conflitti nei quali le nostre razze si accapigliarono, così nel Rinascimento come durante la Rivoluzione. Più ci medito e più scopro un'identità fondamentale fra il movimento che rovesciò in Italia le milizie di Carlo VIII, di Luigi XI, e di Francesco I e quello che vi ricondusse le soldatesche del Championnet, dello Schérer, del Bonaparte. La stessa operazione di segreta alchimia si riproduce nello stesso crogiuolo. È un parto laborioso, che si compie, secondo l'eterna e dura legge della riproduzione, in mezzo al sangue e agli spasimi.

      È nota a voi tutti una teorica che, se non il cuore, appaga l'intelligenza: quella dello Schopenhauer sull'amore. Secondo lo spietato filosofo, due esseri che si amano cedono all'inganno della natura; inconscienti e ingannati, non fanno che obbedire alla volontà d'un terzo essere, il quale si serve di loro per conseguire i suoi fini, e arrivare alla vita. La spiegazione dello Schopenhauer, se è vera, potrebbe adattarsi egualmente a ciò che è il rovescio dell'amore, all'odio: vale per la guerra delle razze come per la guerra dei sessi. Quando due nazioni si scannano, con l'illusione di soddisfare a cupidigie individuali e immediate, esse preparano inconsciamente una nuova forma di civiltà che vuol nascere dal loro conflitto. Questa legge si manifesta in tutte le epoche della storia; e segnatamente nei violenti contatti fra i popoli al di là e al di qua delle Alpi. Mentre gli uomini bagnan di sangue e si contendono le feconde valli fra le Alpi e l'Adriatico, una divinità serena ed ironica contempla le loro lotte, dalla vetta di quelle Alpi dove le nuvole la nascondono agli sguardi dei mortali: impassibile e indifferente alla diversità di razza, di patria e d'interessi, essa rappresenta il genio della storia. Non dice come il Bonaparte a' suoi soldati: “In coteste fertili pianure troverete il pane e le scarpe che vi mancano!„ Ma grida: “Andate, operate, poveri esecutori de' miei disegni: ho bisogno della vostra ignoranza e delle vostre atrocità per conseguire i miei fini; andate e in coteste pianure risvegliate lo spirito della vita, la scintilla che vi ripose l'antica Roma: ne ho bisogno per illuminare l'immagine de' tempi avvenire, che nascerà e prenderà forma e figura sulle rovine da voi lasciate.„ E alla sua voce il miracolo si compie. I soldatacci brutali ed entusiasti, cupidi ed ubriachi, che si sparsero per l'Italia dietro Gastone di Foix e il La Trémouille, ricondussero in Francia, nel riflusso d'una controinvasione, Leonardo, Benvenuto, il Primaticcio, parecchi letterati, e dotti ed ellenisti: il Rinascimento sbocciò, lo spirito de' tempi moderni aleggiò sul carnaio ove caddero gli estremi lottatori dell'età feudale. Parimente, quando i volontari della Rivoluzione piombarono in Italia, spinti dagli stessi principii, attirati dallo stesso miraggio, essi non s'accorsero che preparavano la formazione d'una novella Europa, e che, vagheggiando il loro sogno, aiutavano l'effettuazione dell'antico sogno italiano, cioè la resurrezione d'una patria comune.

      Il mio amico Alberto Sorel ha messo in evidenza l'idea madre, ormai accettata da tutti gli storici, che deve regolare i nostri giudizi quanto all'opera della Rivoluzione e dell'Impero oltre le frontiere francesi. Gli uomini del 1789 e i loro violenti continuatori avevano un ideale nobile, generoso, ma chimerico quanto mai; i primi volevano largire al mondo e gli altri imporgli per forza cotesto ideale di libertà, d'uguaglianza, d'emancipazione umana nella fusione di tutti i popoli fratelli. Ma la sementa che i soldati della Rivoluzione e dell'Impero portarono nei loro zaini cambiò natura – per dir così – nelle terre straniere dove fu sparsa: l'idea di libertà astratta vi germogliò e fruttificò sotto altra forma, con l'idea dell'indipendenza


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