Cavaliere, Erede, Principe . Морган Райс

Cavaliere, Erede, Principe  - Морган Райс


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acciaio brillante alla luce del sole.

      Si fermò un attimo prima di tagliargli la gola, ma non di tanto. Tano sentì la lama tagliente che gli pungeva la pelle, ma non reagì, per quanto avrebbe voluto farlo.

      “Non ti sei mosso di un millimetro,” disse re Claudio. “Quasi non hai battuto ciglio. Lucio l’avrebbe fatto. Probabilmente mi avrebbe implorato per la sua vita. Questa è la sua debolezza. Ma Lucio ha la forza di fare ciò di cui c’è bisogno per governare. È per questo che è il mio erede. Fino a che non riuscirai ad estirpare questa debolezza dal tuo cuore, non ti riconoscerò. Non ti dichiarerò mio. E se attaccherai di nuovo il mio figlio legittimo, ti farò tagliare la testa. Hai capito?”

      Tano si alzò in piedi. Ne aveva abbastanza di stare in ginocchio davanti a quell’uomo. “Ho capito, padre. Ho capito perfettamente.”

      Si girò e si diresse verso la porta, senza aspettare il permesso di farlo. Cosa poteva fare suo padre? Sarebbe stato un atto di debolezza richiamarlo indietro. Tano uscì e Stefania lo stava aspettando. Pareva che avesse mantenuto la sua immagine di compostezza davanti alle guardie lì presenti, ma nel momento in cui Tano venne fuori, corse da lui.

      “Stai bene?” gli chiese accarezzandogli una guancia. La abbassò e Tano vide che era macchiata di sangue. “Tano, stai sanguinando!”

      “È solo un graffito,” la rassicurò Tano. “Ho probabilmente ferite peggiori per il combattimento di prima.”

      “Cos’è successo là dentro?” gli chiese.

      Tano fece un sorriso forzato, ma gli risultò più teso di quanto avrebbe voluto. “Sua maestà ha deciso di ricordarmi che, principe o no, non valgo tanto per lui quanto Lucio.”

      Stefania gli mise le mani sulle spalle. “Te l’ho detto, Tano. Non è stata la cosa giusta da fare. Non puoi metterti a rischio a questo modo. Devi promettermi che ti fiderai di me e che non rifarai mai più una cosa così sciocca. Promettimelo.”

      Tano annuì.

      “Per te amore mio. Te lo prometto.”

      E lo diceva anche sul serio. Uscire così allo scoperto a combattere contro Lucio non era la strategia corretta, perché non gli consentiva abbastanza risultato. Non era Lucio il problema. L’intero Impero era il problema. Per un breve momento aveva pensato di essere capace di convincere il re a cambiare le cose, ma la verità era che suo padre non voleva che le cose cambiassero.

      No, l’unica cosa da fare adesso era trovare dei modi per aiutare la ribellione. Non solo i ribelli ad Haylon, ma tutti quanti. Da solo Tano non avrebbe potuto fare molto, ma insieme poteva forse abbattere l’Impero.

      CAPITOLO SEI

      Ovunque Ceres guardasse sull’Isola Oltrenebbia, vedeva cose che la facevano stare imbambolata davanti alla loro strana bellezza. Falchi con piume color dell’arcobaleno ruotavano puntando a possibili prede in basso, ma venivano a loro volta cacciati da un serpente alato che alla fine si posizionò su una guglia di marmo bianco.

      Camminava sopra all’erba verde smeraldo dell’isola e le sembrava di sapere esattamente dove doveva andare. Aveva visto se stessa nella visione, lì in cima alla collina in lontananza, dove le torri dai colori dell’arcobaleno svettavano come gli aculei di una grossa bestia.

      I fiori crescevano sui prati lungo la via e Ceres allungò una mano per accarezzarli. Quando le sue dita li sfiorarono però, sentì che i loro petali erano di sottile foglia di pietra. Qualcuno li aveva creati così bene o erano una sorta di roccia vivente? Solo il fatto di poter immaginare quella possibilità le diceva quanto fosse strano quel luogo.

      Ceres continuò a camminare dirigendosi al punto dove sapeva, dove sperava che sua madre la stesse aspettando.

      Raggiunse i piedi della collina e iniziò a risalire il pendio. Attorno a lei l’isola era piena di vita. Le api ronzavano nell’erba bassa; una creatura simile a un cerbiatto, ma con le corna di cristallo, guardò Ceres a lungo prima di scappare con un balzo.

      Ma non vide nessuna persona, nonostante gli edifici che punteggiavano il paesaggio attorno a lei. Quello più vicino a lei le dava una sensazione di purezza e di vuoto, come una dimora che è stata liberata solo pochi attimi prima. Ceres continuò ad avanzare risalendo verso la cima della collina, fino al punto dove le torri formavano un cerchio attorno a un’ampia area erbosa, permettendole di vedere tra loro tutto il resto dell’isola.

      Ma Ceres non guardò da quella parte. Si trovò invece a fissare il centro del cerchio dove si trovava una figura da sola, vestita con una tunica bianca e candida. Diversamente dalla sua visione, la figura non era confusa o annebbiata. Era lì, limpida e reale come Ceres stessa. Ceres fece qualche passo avanti, arrivando quasi a poterla toccare. Poteva essere solo una persona.

      “Madre?”

      “Ceres.”

      La figura incappucciata avanzò contemporaneamente a lei e le due si incontrarono in un forte abbraccio che sembrò esprimere tutte le cose che Ceres non sapeva come dire: quanto aveva atteso quel momento, quanto amore provava, quanto incredibile fosse incontrare quella donna che aveva visto solo in una visione.

      “Sapevo che saresti venuta,” disse la donna, sua madre, facendo un passo indietro, “ma pur sapendolo, è diverso vederti sul serio.”

      A quel punto tirò indietro il cappuccio e a Ceres parve quasi impossibile che quella donna potesse essere sua madre. Sua sorella forse, perché avevano gli stessi capelli, la stessa fisionomia. Era quasi come guardarsi in uno specchio. Eppure le sembrava troppo giovane per essere sua madre.

      “Non capisco,” disse Ceres. “Tu sei mia madre?”

      “Sì.” Allungò le braccia per abbracciare Ceres di nuovo. “So che può sembrare strano, ma è così. Quelli del mio genere possono vivere a lungo. Mi chiamo Lycine.”

      Un nome. Ceres finalmente aveva un nome per sua madre. In qualche modo questo significava più di tutto il resto. Anche solo questo era sufficiente perché fosse valsa la pena del viaggio. Avrebbe voluto stare lì a guardare sua madre per sempre. Ma aveva pur sempre delle domande. Così tante che traboccarono da lei in fretta e furia.

      “Cos’è questo posto?” chiese. “Perché sei qui da sola? Aspetta, cosa intendi con ‘quelli del tuo genere’?”

      Lycine sorrise e si sedette sull’erba. Ceres la imitò e quando si fu seduta si rese conto che non era semplice erba. Poteva vedere frammenti di roccia al di sotto che disegnavano delle specie di mosaici, ricoperti da tempo dall’intero prato tutt’attorno.

      “Non esiste un modo semplice per rispondere a tutte le tue domande,” disse Lycine. “Soprattutto non quando io stessa ne ho così tante: su di te, sulla tua vita. Su tutto, Ceres. Ma ci proverò. Facciamo alla vecchia maniera? Una domanda alla volta?”

      Ceres non sapeva cosa rispondere, ma sembrava che sua madre avesse già deciso.

      “Raccontano ancora le storie degli Antichi, là fuori nel mondo?”

      “Sì,” disse Ceres. Aveva sempre prestato più attenzione alle storie dei combattenti e delle loro imprese nell’arena, ma sapeva in qualche modo cosa si diceva degli Antichi: coloro che erano venuti prima dell’umanità, che talvolta avevano lo stesso aspetto e a volte sembravano molto di più. Che avevano costruito così tanto e poi l’avevano perduto. “Aspetta, stai dicendo che tu sei…”

      “Una degli Antichi, si,” rispose Lycine. “Questo era uno dei nostri posti prima… beh, ci sono delle cose di cui è ancora meglio non parlare. E poi tocca a me avere la mia risposta. Allora, raccontami come è stata la tua vita. Non potevo essere lì, ma ho passato un sacco di tempo ad immaginare come fosse per te.”

      Ceres fece del suo meglio, anche se non sapeva da dove iniziare. Raccontò a Lycine di essere cresciuta attorno alla forgia di suo padre e insieme ai suoi fratelli. Le raccontò della ribellione e dell’arena. Riuscì anche a dirle di Rexus e Tano, anche se quelle


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