Storie da ridere.... e da piangere. Ercole Luigi Morselli

Storie da ridere.... e da piangere - Ercole Luigi Morselli


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       Ercole Luigi Morselli

      Storie da ridere.... e da piangere

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066071011

       L'OSTERIA DEGLI SCAMPOLI.

       L'ELEFANTE.

       LA BEFANA DI BACICCIA.

       «ITALIEN, LIEBE, BLUT...!»

       L'AEROPLANO.

       LA DONNA-RAGNO.

       LA VITA È ALLEGRA!

       IL CAVALIER ALLEGORIA.

      [pg!1]

       Indice

      Dove può rifugiarsi la felicità!...

      Eppure ho veduto poca gente più felice di quella.

      Me li ricordo bene, in quel torrido febbraio bonaerense, dalla mattina alla sera sotto una gran tenda bianca a righe rosse, attorno a quattro tavole cariche di bicchieri, fuori di quella piccola ma celebre Osteria degli Scampoli, che poi finì bruciata con tutta l'isola di casupole di legno sgangherate, nel gran rogo d'un enorme deposito di catrame vicino, a specchio dell'acqua grassa e filigginosa del porto. Non erano uomini: erano resti d'uomini. Poco o molto della loro carne era già sotterra, ma glie n'era rimasta tanta da poter mangiare, bere, digerire, ridere e bestemmiare: scampati miracolosamente alle carezze dei magli, dei repulsori, degli ingranaggi, delle ruote, delle locomotive, [pg!2] affettati nei più strani e crudeli modi, ma liberati anche per sempre dalla pesante croce del lavoro e dei doveri sociali, vegetavano allegramente lì su quelle panche, appuntellati con le loro gruccie, agitando i loro moncherini, veri scampoli della grande merceria umana, come li aveva battezzati l'oste filosofo. Quest'oste era un marchigiano, calafato un tempo, che aveva avute spezzate le due braccia da un argano, a Cape-Town. La Castle-Line glie le aveva pagate in contanti sterline, in ragione di cento l'una, e lui aveva súbito venduto i ferri del suo vecchio mestiere e s'era imbarcato nel primo piroscafo per Buenos Aires, col gruzzolo, la poca roba, e una certa sua pallottola di moglie che vedeva il mondo non già roseo bensì addirittura rubicondo come la sua propria faccia; e rideva anche dormendo.

      Ma anche la ossuta e adusta faccia di lui riluceva lasciando la terra d'Africa, poichè il sogno di tutta la sua vita di emigrante era raggiunto; poteva finalmente aprire un'osteria alla Boca di Buenos Aires, dove aveva fatto la fame per due lunghi anni. N'era partito disperato e ora ci ritornava capitalista. Senza braccia, sì: ma a che servono le braccia a un capitalista! Per contare i quattrini gli sarebbero bastati gli occhi; per farli cadere dentro il cassetto del suo [pg!3] banco da oste gli sarebbero bastati i suoi complessivi quaranta centimetri di moncherini che gli sbucavano dalle maniche rimboccate della sua giacchetta, simiglianti con la loro cucitura fresca a due germanici salami d'oca. Del resto egli si sarebbe serbato la parte direttiva dell'impresa; due bei bracciotti grassi e robusti al servizio del suo cervello di aspirante milionario, li avrebbe sempre avuti: erano quelli della sua ridente pallottola che egli soleva chiamare inglesemente Bullet e amava ora come non aveva amato mai.

      Poichè quella sciagura delle braccia doveva aver anche richiamato sulla singolare coppia una nuova luna di miele, anzi addirittura un plenilunio di miele.

      Un ebreo polacco commerciante di oggetti di gomma e schiave bianche, il quale s'era trovato a fare il viaggio da Cape-Town a Buenos Aires sullo stesso vapore, mi raccontava che era stato commosso fino alle lacrime da questo idillio di nuovo genere, durato ventiquattro giorni ininterrotti. Fosse la compassione materna per quel povero diavolo che aveva ormai bisogno di essere vestito e imboccato come un bambino d'un anno, fosse l'aspetto nuovo e quasi favoloso che davano a suo marito quelle duecento sterline cucite intorno alla pancia in [pg!4] una ventriera di tela da barche; certo è che Bullet non aveva distolto un solo istante gli occhi amorosi dal suo Otello. Otello, così si chiamava lui, stava tutto il giorno sul castello di prua, comodamente disteso sopra una seggiola pieghevole che Bullet aveva voluto comprargli con i suoi segreti risparmi di pettinatrice: mangiava, beveva, fumava la pipa, costruiva il suo avvenire guardando fisso nel mezzo delle nuvole, passava beatamente dal monologo al sonno, sicuro che la sua Bullet non lasciava il suo posto di guardia seduta sopra una gomena, davanti alla sua preziosa pancia cinta della loro fortuna.

      Per imboccarlo, Bullet veniva a sedersi ridendo sulle sue ginocchia, soffiava sulla minestra, l'assaggiava prima di dargliela, come una buona mamma, gli mondava le banane, gli vuotava in corpo numerosi bicchieri di vino. Finito di mangiare parlavano e ridevano un buon poco, rimanendo così, lei seduta sulle ginocchia di lui; parlavano del loro avvenire che egli costruiva anno su anno, con un progressivo sfoggio di fantasia milionaria, che dava le vertigini alla ridente pallottola di ciccia. Quando Otello s'era esaurito, puntava contro la sua Bullet i suoi due moncherini, ed essa ci si buttava in mezzo ridendo e baciandolo sul viso. Allora, sottovoce, [pg!5] per non essere udito, egli le diceva: — Tiemmi di conto, sai, Bullet, perchè il tesoro vero non è quello che ci ho intorno alla pancia, è quello che ci ho nel cervello! Vedrai! tra dieci anni, duecento sterline te le voglio mettere all'orecchio a te! — E Bullet stralunava gli occhi dal gran gusto.

      Una volta il mio ebreo polacco colse, non visto, quest'altro brano di idillio.

      Bullet, carezzando la testa e il collo bruno del suo Otello, gli sussurrava dolcemente: — Ti ricordi quando mi dicevi: «Se tu mi tradissi, io farei come quell'altro Otello, ti strozzerei!». E adesso, sentiamo un po', se ti tradissi, che cosa mi faresti? — E qui una gran risata.

      Dal modo come Otello aveva guardato la sua cicciuta Desdemona, si capiva bene che da tempo immemorabile non aveva pensato ad una simile possibilità, tuttavia bestemmiò torvamente per dare una intonazione terribile alla sua prossima risposta; e finalmente disse: — Adesso ti mangerei tutta, come un lupo.

      — Ah! sempre lui, il mio Otellino! — aveva strillato la donna, — quanto mi piaci! — E gli aveva appiccicato due improvvisi baci sugli occhi ancora minacciosi, sì che lui aveva dovuto chiuderli e ridere.

      Così erano arrivati a Buenos Aires. E prima [pg!6] ancora che egli avesse trovato quella tale osteria da rilevare, che facesse al caso suo, gli s'eran messi d'intorno, per naturale gravitazione, cinque o sei storpiati, come lui, non dalla natura, ma dalle più svariate applicazioni meccaniche del genio umano. Questi erano tutti pensionati delle ferrovie, delle compagnie di navigazione, delle assicurazioni, delle società di mutuo soccorso; e così non avevano preoccupazione maggiore di quella del buon vino, e gli promisero di strascinarsi dietro tutti gli storpi della capitale, purchè il vino fosse sincero e l'osteria fosse in qualche modo intitolata a loro.

      Per incominciare, l'affare fu giudicato ottimo dall'oculato Otello, e in una notte di veglia febbrile il nome lo trovò: Osteria degli Scampoli. Questa mite ironia senza rimpianto fu approvata alla unanimità: si giudicò incapace di turbare l'allegria e la sete degli avventori, e nel medesimo tempo


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