In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

In faccia al destino - Albertazzi Adolfo


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Non eravate più quello d'una volta. Perchè? Da prima ero un po' curiosa, lo confesso; ma l'altra sera, quando vi costrinsi io a svelarvi un poco, indovinai, e avrei voluto non indovinare.

      — Come? Che cosa indovinaste?

      — Ricordavo con che entusiasmo mi parlavate una volta dei vostri studii. Io sono una povera donna; non so nulla. Ma quante volte mi dissi: «E se non fosse possibile arrivare dove Sivori vuole?» Comprendevo le fatiche che doveva costarvi il vostro ideale; comprendevo che voi non avevate nulla, non volevate nulla fuori di quello. Tutta la vostra vita era là. Mi dicevo: «Sivori non vuole ammogliarsi.... Come vive? perchè vive? Per i suoi studii. Non ha altro bene al mondo. Ma: e se per una causa qualunque perdesse la sua fede?...»

      — Avete indovinato! — esclamai stringendomi il capo tra le mani e coprendomi la faccia con le palme.

      Perplessa, col timore d'avermi fatto troppo male a vedermi in quel modo, essa ristette un poco. Poi riprese:

      — Debbo dirvi tutto. Avere un ideale come il vostro e perderlo, deve essere un dolore immenso, una sventura immensa! Ma voi avete resistito. Avete sostenuto una lotta terribile, è vero?; ma avete resistito! Vedete dunque che siete forte. E siete ancora giovane. Perchè non volete persuadervi che potete avere altri affetti, altre consolazioni, forse un'altra fede?

      — No! Quando si è perduta, la fede non si riacquista più; e io ho perduta la fede più bella, la fede di me, del mio ingegno, del mio cuore In chi credere? in che cosa? L'altra sera vi dissi: «temo che la mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto; «sto meglio», e infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo, non è forse peggio che non sentir nulla?»

      Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane? o alla squallida miseria d'un uomo roso da un morbo insanabile?

      — Una sorella.... — mormorò in fretta, seguendo il corso del suo pensiero mentre Ortensia veniva a noi. — Perchè Dio non vi ha dato una sorella?

      Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che ambasciata, o notizia.

      — Cervellina! — le disse la madre in tono di soave rimprovero, rialzandole i capelli su la fronte. — Cervellina!

      La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia allo schienale della poltrona.

      Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:

      — Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine materna che sopravvive.

       La signora annuiva. Ma io mi corressi:

      — Forse esagero, perchè attribuisco a questo bene, che mi manca e che comprendo, anche la parte pura del sentimento che nessuna donna esaurì pienamente dal mio cuore. Sono certo però che quest'affetto può bastare a sè stesso; gli basta, per sussistere, nutrirsi di sè stesso; e ciò lo rende superiore forse a ogni altro.

      Eugenia disse:

      — Infatti quante mogli non buone sono sorelle buone.

      Io proseguii concitato.

      — Oh l'affetto che nessuna colpa contamina, che nessuna volontà o finzione o profitto dirige, e che si esprime spontaneo, placido, continuo, in prove d'abnegazione, nella voluttà del sacrifizio! Disperato, solo, io mi son visto in un'interminabile via, irta di triboli. Tutti i beni a cui feci rinuncia eran perduti, e la vetta a cui tendevo era sparita. Sarei caduto se avessi avuto le parole che son balsamo allo strazio? le stesse parole che avrebbe avute per me mia madre? Maledirei così il mio pensiero se io vedessi negli occhi di una sorella le lagrime stesse che piangerebbe, a udirmi, mia madre? Maledirei la vita se sentissi un cuore fraterno partecipare del mio cuore? Ma — conchiusi, triste: — una sorella non si trova!

      Eugenia taceva, triste. Senza guardarmi, essa rigirava gli anelli nelle dita, considerandole, pareva, come bianche.

      Mi guardava intanto, fisa, stupita, Ortensia; quasi quella mia disperazione fosse una rivelazione per lei....

      Ed io le vidi l'anima negli occhi, come un'altra volta le avevo veduta....

       Fu un attimo. In un attimo ebbi io pure l'impressione d'una rivelazione improvvisa, d'una gioia ineffabile, d'un sollievo insperato e certo al mio lungo soffrire. Due anime, in quell'istante, s'intesero. E Ortensia sorrideva d'un sorriso trepido, quale il suo sguardo....

      Un attimo: le nostre anime ricaddero in noi. Ma l'affettuoso patto era già conchiuso.

       Indice

      — Vuoi esser tu la mia sorella?

      — Sì.

      — Per tutta la vita?

      — Sì! — rispose Ortensia con maggior fermezza.

      Mi porgeva, a conferma, la mano. Ma credè non bastasse:

      — Sarò buona. Vedrà! Glielo prometto!

      A me parve più bella; e mi sovvenne del birocciaio che avevo visto, stanco ed assetato, gettarsi alla sorgiva, innondare di ristoro il petto e riprender l'erta con vigore nuovo. Un benefizio consimile ma più grande, più grande io avrei dal consentimento di Ortensia; e questo non era, no, un'allucinazione, un'aberrazione, una puerilità di mente immiserita e di animo appena ridesto in un rinnovamento precario e ingannevole. No! Non speravo una guida al lume della fede e del vero; non supponevo nemmeno un ritorno alla fiducia in me stesso; ma dalla corrispondenza di un semplice affetto, di un bene umano, mi attendevo ciò che nessuna altra cosa avrebbe potuto darmi: ricupererei pienamente il senso della vita; il mio pensiero si purificherebbe nel pensiero di Ortensia; il mio cuore tornerebbe vigile e buono; l'anima triste si allieterebbe dell'anima lieta. Attendevo, volevo il ristoro di quella inconsapevole dolcezza, di quella spontanea vivacità, di quella ingenuità forse non più ignara del male, ma su cui la conoscenza del male passava come ombra che non agita e non intorbida....

      Qua, sorellina, che ti riveda! Riluce ne' tuoi occhi la poesia che un'eterna forza di giovinezza esprime in mille modi, in vite innumerevoli d'intorno a te: i sogni, i tuoi sogni, ti accompagnano a volo, t'avvolgono il capo biondo e tolgono ogni nube alla tua fronte. Li scorgi? Guarda: ti si specchiano dinanzi nella realtà.... Qua che ti riveda nella veste più umile: la gonna bleuastra, il corpettino chiaro con la fascia di seta bianca, e i fiori al petto, mentre con mano impaziente rialzi i capelli sulla fronte e sorridi. A vederti, dilegua ogni ricordo di morte. Parla! Le parole sgorgano limpide dalla tua bocca e cadono con soavità lunga....

      — Che uomo! Sempre triste! Su, signor dottore! A raccoglier dei fiori; presto! andiamo!

      Va; e che le spine non pungano le tue mani divinamente belle!...

      .... Il dolore risparmierebbe quell'anima? Già questo io mi chiedevo. Non era dunque un affetto egoista, il mio, se già mi facevo questa domanda; e un'affezione disinteressata mi pareva tuttavia utile al mondo: per Ortensia non sarebbe inutile avere in me un bene fraterno, quand'anche la fatalità della sventura le fosse indulgente.

       Ma io che difendevo Ortensia, io che la conoscevo meglio di tutti, scorgevo meglio di tutti i pericoli dell'indole sua. «Cervellina» la diceva la madre; nè la queta e mansueta Marcella, che troppe volte doveva attender da sola alle faccende domestiche, aveva tutti i torti a lamentar frequenti strappi ai diritti della primogenitura e a chiamarla svogliata. E le altre?

      La signora Redegonda — la madre di Guido — chiudeva un occhio, ridendo senza volere, allorchè giudicava


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