In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

In faccia al destino - Albertazzi Adolfo


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ogni mezz'ora se gli scarsi capelli, d'un biondo bianchiccio e d'un biondo sporco, celassero, ben disposti, le lacune dell'età, e se i baffetti rilevassero l'esili punte su e contro il profilo della barbetta, e se la cravatta, a colori sentimentali, conservasse sempre il giusto mezzo; unico a contemplar in sè medesimo ora il candor delle unghie o la forma delle scarpe, ora i gemelli o i polsini o le armoniche tinte delle calze di seta; ora l'orecchia del fazzoletto, gentilmente colorato, fuor della tasca, o il brillar degli anelli nelle scarne dita. Per parlare egli s'era adornato della fraseologia e dei motti dei giornalisti brillanti; spropositava spesso nella pronuncia delle frasi inglesi, ch'eran le preferite, e ripescava, per di più, qualche sentenza scolastica o classica.

      Con aria diplomatica discuteva troppo spesso in politica, poichè un'ambizioncella politica gli si era inacidita nel cuore, nè ancora aveva cessato di ripetere a se stesso: j'attends mon astre. Aveva il suo programma nel motto «ordine nella libertà e libertà nell'ordine» senza che paresse comprenderne egli stesso il pieno, solenne significato che pareva attribuirvi. Infatti questo amatore della libertà nell'ordine, questo amabile gentleman, era stato un tirannico capo-ufficio ed era adesso un petulante marito pensionato. Angustianti smorfie e tic nervosi gli opponeva la signora Fulgosi; ma apostrofandolo «imbecille» in casa, la moglie non mancava mai di chiamarlo «cavaliere» fuori. Ella portava a Valdigorgo la correttezza dei modi e la scorrettezza dei pettegolezzi e degli isterismi aristocratici. Il loro figliuolo, Pieruccio, nato certo in conseguenza di un litigio, manifestava, ora più che sedicenne, com'erano inconciliabili anche in lui la natura materna e paterna. Fastidioso e incoercibile per metà del giorno; compassato e affettato la sera, dopo la toilette; antipatico sempre.

      Involontario riscontro ai Fulgosi facevano i Learchi. Egli, Learchi padre, era un risaiolo arricchito. Aveva dunque il diritto d'insegnare agli altri la maniera di viver bene. In tutto si sarebbe dovuto fare come aveva fatto e faceva lui. Ignorante e testardo; gran mangiatore e non minore bevitore e fumatore di pipa. Ligio alle pratiche religiose, vi tranquillava la coscienza; si assicurava con esse a star di là, anche meglio che di qua, e frattanto sorreggeva il perfetto egoismo cattolico dicendosi clericale «e me ne vanto». Sua moglie, la signora Redegonda, era buona di cuore e sempre ilare; ma di testa piccola. L'universo per lei consisteva nella cucina, dove esercitava molt'arte, e con ingenua rozzezza stupiva a ogni altra cosa che non fossero manicaretti, pasticci, dolci d'ogni sorta. Felici entrambi dell'aver maritata bene, a un ricco, la figliola, aspettavano per di più la consolazione di aver dottore il figliolo. E questi — Guido — poteva piacere o spiacere al pari d'ogni cuor contento.

       Quanto alle Melvi, la madre non riusciva a nascondere a me l'ipocrisia e la malignità della paesana che non potè mai uscir di paese e che in paese vuol sembrar amica di tutti perchè invisa a tutti. Lingua iniqua! Ma quante esclamazioni, espansioni d'affetto! La bontà si sarebbe detto trasudasse da tutti i pori della sua piccola e grassa persona; la virtù in lei sembrava tanta da permetterle di congratularsi a ogni nuovo matrimonio che s'annunciasse o celebrasse a Valdigorgo, quando la rodeva l'invidia, la tormentava il dubbio di non poter accalappiare un marito per la sua Anna;, la sua Anna, irresistibile, per lei, di vezzi e più di carne. Ed Anna.... Che dire di Anna Melvi: come esprimere quel che io provo ora, scrivendo queste due parole?

      Di rado tutti costoro, nei primi giorni del mio ritorno lassù, si eran trovati insieme alla villa. Di solito l'una e l'altra mamma saliva da Eugenia, e sol talvolta, quando Eugenia riposava, le ragazze e i giovani si erano raccolti nell'ampia sala a terreno, o nella terrazza, ai loro giochi di pegni, mentre Moser si divagava aizzando il cavalier Fulgosi contro il Learchi padre. Io per lo più avevo cercato scampo nella mia camera, col pretesto di dormire.

      Ma venne la buona novella; il medico curante, pago della mia approvazione non che del buon effetto delle sue cure, annunciò che a giorni permetterebbe alla convalescente d'alzarsi.

      Eugenia era in piena convalescenza. Ed io?... La sera della buona novella andavo per la casa cercando invano di raccogliere in me il senso di quella letizia che vedevo fuori di me. Non potevo fingere un piacere che mi sfuggiva; avrei voluto fuggire accusandomi quale un amico indegno; neppur mi commoveva la gioia di Claudio!

      Egli fece portare due bottiglie nel salotto, per gli amici; e mi attendeva con Fulgosi e Learchi. Dovetti entrare.

      — Lupus in fabula! — esclamò il cavaliere. — E Claudio: — Sentite questa! Quando eravamo all'Università a Bologna, io agli ultimi anni e Sivori ai primi, facevamo qualche scappata a caccia nelle risaie di Molinella. Ci accompagnava un omicciattolo, un falegname soprannominato il Biondo.... Ah! il Biondo! ma par di vederlo! Aveva uno schioppo che pareva un catenaccio; mirava chiudendo gli occhi, e non sbagliava un colpo. È vero?

      Accennai di sì col capo; non celando la poca voglia di riudire aneddoti della mia biografia. Ma Claudio proseguì:

      — Dunque mentre io e il Biondo stavamo alla posta delle anitre, e non pensavamo che alle anitre, quel bel matto lì (e accennava a me) era spesso colla testa nelle nuvole e metteva giù lo schioppo per guardare al libro che portava in tasca. Una bella maniera d'andare a caccia! Non si sarebbe accorto d'un rinoceronte quando leggeva. Ma un giorno che ritornavamo in barca — era d'autunno inoltrato — io gli prendo il libro e glielo scaravento in mezzo all'acqua. Cosa fa lui? Spicca un volo e gli va dietro alla pesca.

      — Non fu così — interruppi fiaccamente.

      — Così! Proprio così! Il Biondo è ancor vivo e sano, e sebbene sia il tuo fittavolo, adesso, è un galantuomo capace di testimoniare la verità.... Bene! noi sudammo a pescar lui, l'amico; lo tirammo su sporco e fracido come si meritava; e con la tremarella addosso. Io gli davo quanti pugni potevo, più per sfogare la rabbia che m'era venuta che per mantenergli la circolazione del sangue, e Sivori, lo credereste?, si lamentava: — Il mio libro!... Il mio libro... Non ho capito una cosa!... — Non vi dico altro! Quasi quasi si era affogato solo perchè non aveva capito una cosa!

      — Non è vero! — brontolai. — Era un'edizione pregevole....

      Nessuno mi badò. Ridevano tutti, e più di tutti rise il piccolo Mino, che era venuto in cerca di me. Non desiderando di meglio che sottrarmi alla filosofia del buon senso, chiesi al ragazzo che cosa voleva.

      — Se mi comperi i burattini, ti racconto una bella favola.

      Ripigliò Moser: — Sublimi poi erano le discussioni col Biondo falegname! Sivori sosteneva che ammazzare una quaglia era uno strappo all'anima universale, come diceva lui; il Biondo invece sosteneva che Domineddio non avrebbe creato le quaglie se non dovessero essere mangiate arrosto. Avevano così diversi punti di vista che Sivori con cinquanta colpi non strappava nulla, e il Biondo — lo confesso, lo ripeto — tirava meglio di me! Ma le quaglie chi le mangiava? chi le gustava di più? Ah quei bocconcini di anima universale! Altro che Spinoza eh, Sivori?

      Risero di nuovo. Finchè Mino tirandomi per la giacca mi forzò ad appartarmi con lui in un angolo. Ivi solennemente prese a raccontare:

      — «Castelli in aria».... Beppe andava per il bosco.

      Intanto udivo Learchi sentenziare, vuotato il bicchiere:

       — La filosofia sta nel seguir la volontà di Dio, ricordandosi però che lui dice: «Aiutati che t'aiuto!»; e quando la coscienza è tranquilla, tutto va bene a questo mondo!

      — Il mondo bisogna farselo! — ribatteva Moser. — Farsi una, famiglia; lavorare per la propria famiglia e non pensare ad altro!

      — Io sono fatalista — avvertiva il cavalier Fulgosi. — «Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce....»

      Tratto dall'astuccio il piccolo pettine, il cavaliere si pareggiò i baffi, si mirò allo specchietto; poi aggiunse che io ero uno di quelli nati apposta per far camminare il mondo.

      — Senza filosofia, caro signor Learchi, il mondo non camminerebbe. È la scienza delle scienze, che innalza l'umanità. Excelsior!

      — Il mondo andrebbe benone lo stesso! — urlava Learchi. — Religione, fede per sopportare i guai; e basta!

      Mino tornò da capo:

      —.... Beppe andava per il bosco,


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