La principessa romanzo. Jarro

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      LA PRINCIPESSA ROMANZO

      Al Comm. MATTEO SCHILIZZI

      Questo romanzo fu pubblicato, per la prima volta, nelle appendici del suo diffusissimo giornale Il Corriere di Napoli. Ella stessa ebbe la bontà di scrivermi che il gran pubblico napoletano l’aveva accolto, capitolo per capitolo, con la più viva curiosità. Altri miei amici mi raccontarono del successo popolare che ebbe in Napoli questo lavoro. S’intitolava allora La Donna Nuda: ma, per varie ragioni, il titolo è stato oggi mutato.

      Sono orgoglioso di scrivere in fronte al mio libro, come lietissimo auspicio, un nome illustre, caro all’universale, il nome di un gentiluomo, in cui sono pari la squisitezza dell’intelligenza e la grandezza dell’animo.

      Accetti, nobilissimo amico, il tenue omaggio come espressione d’affetto, d’ammirazione, di simpatia vivissima.

      Firenze, 30 giugno 1893.

      Jarro.

      PARTE PRIMA

      Veniamo ai fatti:

      I

      Nel pomeriggio del 30 luglio 18.... un uomo correva trafelato verso il parco di Montrone, presso Napoli.

      Aveva fiori e nastri rossi al cappello: i panni da festa: la faccia come infuocata.

      – Domenico!… Domenico!… – Uomini, donne, ragazzi lo chiamavano, sghignazzando, facendosi beffe di lui, ma egli non si fermava.

      – È tardi!… è tardi!… – aveva risposto due o tre volte a’ più importuni.

      E aveva continuato nella sua corsa.

      Domenico era ben noto per diecine di miglia intorno a Napoli.

      Avea servito molti signori, in un anno mutava cinque, sei padroni; era stato cocchiere, cuoco, valletto; aveva pur servito in conventi, in locande, in osterie, sempre cacciato per la sua intemperanza.

      Ora egli era giardiniere del duca di Montrone.

      Il duca, ufficiale nell’esercito austriaco, aveva testè preso parte a una delle guerre d’Oriente, ed era tornato la sera innanzi, dopo oltre un anno di assenza, con l’uniforme di generale.

      Quel giorno i suoi amici, i suoi contadini, lo festeggiavano.

      Il parco di Montrone era tutto imbandierato, vi erano stati eretti archi di fiori.

      Domenico, a una cert’ora, contando che nessuno s’accorgesse della mancanza di lui, se ne era andato a mangiar e bere con alcuni compagni all’osteria del Falcone, tenuta dalla grossa Elisabetta, di cui egli spasimava.

      E fra il bere, il corteggiare, il ridere, si era trattenuto più che non disegnava.

      Ecco perchè correva a quel modo.

      In fatti, già tutti si erano accorti della sua sparizione.

      Egli doveva presentare al duca i contadini, e, siccome aveva lo scilinguagnolo pronto, parlare, in nome di tutti, al gentiluomo.

      – E Domenico?… e Domenico?… – s’interrogavano gli uni e gli altri.

      – Domenico, a quest’ora, – rispondeva uno, – sarà addormentato sotto un albero, o in un granaio, o all’ombra di qualche muro.... chi sa.... dopo aver tracannato molto....

      Con maggiore insistenza degli altri avea cercato di Domenico, Cristina Braco, cameriera della figlia del duca.

      Costei avea domandato più volte del giardiniere, e chi avesse potuto leggerle nell’animo vi avrebbe scoperto una grande inquietudine.

      Cristina, piuttosto alta di statura, nerboruta, di viso scialbo, con profonde occhiaie, di modi bruschi, taciturna, era un personaggio assai misterioso; e sembrava, ad alcuni non privi d’acume, messa accanto alla giovane duchessa come il suo cattivo genio.

      Enrica, o che i malvagi istinti la traessero a prediligere una donna come Cristina, o qual altro ne fosse il motivo, avea sempre dato sembiante di tenerla in grande affetto.

      E durante l’assenza del duca, si può dire che le due donne, la padrona e la cameriera, avevano vissuto sempre sole, e senza staccarsi mai l’una dall’altra.

      Un tempo andavano la domenica alla chiesa, senza far motto ad alcuno: tutte e due rigide e pallide: senza mai dar al sagrestano, che andava attorno per la questua, l’elemosina che non gli rifiutavano i più tapini.

      Non pochi avevano notato in Enrica un ghigno feroce come se la travagliassero cattive, irresistibili passioni: come se,ella covasse in sè una forte inclinazione a odiare e distruggere.

      In breve, le due donne non comparvero più nella chiesa: un prete andava a dir la messa la domenica nella cappella entro il parco di Montrone.... Ed Enrica e la cameriera l’ascoltavano dietro la grata d’un coretto, in alto.

      Non erano più uscite dal parco per varii mesi, allorchè il duca tornò all’improvviso, inaspettato.

      Il duca adorava la sua unica figlia; era partito, affidandola ad una sua sorella, poichè egli era vedovo da molti anni. La gentildonna era stata colta da una grave malattia: per consiglio dei medici avea dovuto recarsi in altro clima. Enrica era rimasta con Cristina e aveva persuaso, il che non le riesciva mai difficile, il duca che così stava benissimo, senza pericoli.

      Il duca non potea aver inquietudini: era di carattere leggero, spensierato, confidava molto nella serietà di Enrica, nella stretta solitudine in cui viveva, nel vigile amore di coloro che la circondavano.

      Cristina, poi, ispirava al duca una fiducia senza limiti.

      – Ecco.... ecco Domenico! – gridò un contadino che era andato molto innanzi sulla strada, fuori del parco, quasi subodorando che il giardiniere dovesse venire di là.

      Subito la lieta notizia andò di bocca in bocca.

      Domenico entrò correndo, ansando, nel parco: ruppe ogni domanda inopportuna sulle labbra degli indiscreti.

      – Qua.... qua.... venite.... è tardi.... riuniamoci.... per andare tutti insieme al palazzo.... Dove sono gli stendardi di fiori?… Le ragazze sono arrivate?… Qua.... qua.... – e accennava con la mano verso un viale ove si vedevano aggruppate parecchie diecine di ragazze vestite di bianco.

      – E la musica? la musica?… – gridava Domenico, che non voleva dar tempo agli altri d’interrogarlo.

      Ma il suo viso acceso, i suoi occhi stralunati, l’eccitazione de’ suoi gesti rivelavano, senz’altro, come e dove egli aveva passato quelle ore.

      – Cristina vi cercava! – gli susurrò all’orecchio il vecchio intendente del duca.

      – Ah! Ah!

      Malgrado il piglio di leggerezza con cui rispondeva, la fisonomia di Domenico diventò contraffatta, come se le parole dettegli dall’intendente gli avessero sgradevolmente ricordato qualche brutta cosa, ch’egli dovea compiere, e che il vino, propizio o no, gli avea fatto dimenticare.

      – E il duca?… – chiese Domenico, sopra pensiero.

      – Il duca non è ancora uscito dalla villa, – replicò l’intendente.

      Domenico respirò.

      – La duchessina è molto debole.... Sta sempre assai male.... E il duca voleva persuaderla a uscire con lui, e venir a ballare sul prato le prime quadriglie con le nostre ragazze.

      – Sarà impossibile! – scappò detto a Domenico. E subito si guardava attorno, sospettoso.

      Vide che erano arrivati molti signori, amici e parenti del duca.

      C’erano fra gli altri il conte di Squirace, il marchese di Trapani, e parlavano in quel punto con l’avvocato del duca, fra i più reputati di Napoli, Maurizio Cotella.

      – Marchese, – diceva il conte di Squirace, – siete molto inquieto....

      – E come no? – rispondeva il marchese, cugino del duca, – ho lasciato a casa mia moglie in gravissimo stato.... Da un momento all’altro può arrivare qui un messo ad anunziarmi che ho avuto un figlio, o pure.... Essa soffre tanto.... Ci voleva proprio questo ritorno improvviso di mio cugino perchè la lasciassi, anche per poco....

      Il


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