Il brick maledetto. Emilio Salgari


Il brick maledetto - Emilio Salgari


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      Emilio Salgari

      IL BRICK MALEDETTO

      Veramente quel brick si chiamava Estrella, almeno tale era il nome che si scorgeva in lettere dorate sulla sua poppa, e lo si vedeva ripetuto sui suoi salvagente legati alle impagliettature e sulle sue scialuppe, e nondimeno i marinai di tutti i porti del Portogallo lo avevano battezzato invece col nome poco piacevole di Brick del Diavolo.

      Esteriormente nulla presentava di strano che legittimasse quel titolo, che pareva trovato appositamente per spaventare i marinai già perfino troppo superstiziosi. Era un bel legno di sette od ottocento tonnellate, con un’alberatura altissima ed un grande sviluppo di vele per raccogliere le più lievi brezze dell’Atlantico equatoriale, con una linea di acqua perfetta e delle forme snelle che facevano ricordare quelle delle velocissime navi negriere. Eppure godeva tristissima fama e, quando qualche marinaio moriva, era ben difficile trovare, nei porti del Portogallo, un altro che lo surrogasse.

      – Imbarcarmi sul Brick del Diavolo! – rispondevano tutti. – Ah! – E voltavano senz’altro le spalle al capitano ed al mastro, andandosene più che in fretta, come se temessero di venire raggiunti ed infilzati dalle corna ardenti di messer Belzebù.

      A dire il vero nessuno dava loro torto di non prendere imbarco su quella nave. Correvano sul conto di quel brick delle voci che facevano rizzare i capelli ai lupi di mare più spregiudicati.

      Si diceva che quel legno era veramente stregato e che nella sua stiva succedevano delle cose molto paurose. Si diceva che di quando in quando s’udivano dei rumori misteriosi, specialmente allorchè le onde scuotevano il naviglio, e che di notte un’ombra nerissima passeggiava per le corsie e nel frapponte, mandando dei gemiti disperati.

      Si aggiungeva inoltre che quella era l’anima di un marinaio uccisosi cadendo, durante una notte tempestosa, dall’alberetto di maestra e che era stato gettato in mare senza recitare le preghiere d’uso, non avendo l’uragano permesso al capitano ed ai marinai di dare l’ultimo saluto cristiano a quel disgraziato.

      Fossero quelle voci false o vere, il fatto sta che nei porti del Portogallo nessuno osava arruolarsi sull’Estrella e che i marinai che ne formavano l’equipaggio di tratto in tratto provavano delle grandi paure.

      Ora accadde che un giorno, avendo bisogno d’un pilota, il capitano imbarcò in un porto dell’Inghilterra un marinaio nero come un tizzone d’inferno, dallo sguardo vivissimo e d’aspetto tutt’altro che piacevole, che portava un nome che non era davvero incoraggiante per l’equipaggio: lo chiamavano Nero.

      Cosa inesplicabile. Da quando quello straniero aveva preso imbarco sull’Estrella, dei fenomeni curiosissimi erano subito successi a bordo, come se quell’uomo fosse stato legato in stretta parentela o col marinaio gettato in mare senza recitargli le preghiere o con Belzebù.

      I fremiti della nave, quando l’onda la percuoteva, erano diventati più forti e ogni notte gli uomini di guardia udivano un passo pesante far scricchiolare le tavole del frapponte, come se una sentinella passeggiasse per guardare il carico racchiuso nella stiva.

      Anche il capitano aveva cominciato a preoccuparsi. Fino allora aveva creduto che quei rumori che si udivano nel frapponte fossero causati dai topi, che a dire il vero abbondavano straordinariamente a bordo, ma anche lui una sera aveva udito quel passo pesante salire la scala che dal frapponte conduceva nel quadro e fermarsi proprio dinanzi alla sua cabina.

      Tutti erano spaventati. Solamente il marinaio inglese pareva che non se ne preoccupasse. Era d’altronde un uomo chiuso, che parlava il meno possibile, che non aveva accordato alcuna confidenza a chicchessia, nemmeno al capitano, quantunque esercitasse il suo mestiere come il miglior marinaio della flotta dei due mondi.

      Quando i suoi camerati gli avevano parlato dei rumori misteriosi che si udivano nel frapponte, aveva risposto con una semplice alzata di spalle ed un sorriso sardonico, quasi di sprezzante compassione.

      Un giorno, il capitano, il quale cominciava ad inquietarsi vivamente dello spavento che a poco a poco invadeva i suoi marinai, quantunque avesse avuto la cura di sceglierli fra i meno superstiziosi, chiamò il pilota nella sua cabina, chiedendogli a bruciapelo:

      – Avete voi conosciuto un certo John Morton, che era gallese al par di voi? Desidererei vivamente saperlo.

      – Morton! – mormorò il pilota, passandosi una mano sulla fronte, come per rievocare un vecchio ricordo. – Un marinaio giovane, con la barba bionda e gli occhi nerissimi, che molti anni or sono si era imbarcato su una nave straniera, non so se portoghese o spagnuola?

      – Sì, deve essere quello – disse il capitano.

      – By God! – esclamò il pilota. – Era mio vicino di casa, John!… Giocavamo insieme quando eravamo ragazzi.

      – L’avete dunque conosciuto?

      – John Morton? Perbacco! Altro che!

      – Sapete che cosa è avvenuto di lui?

      – Io non l’ho più riveduto da cinque o sei anni e nemmeno nel Gallese nessuno ha più udito parlare di lui. Certo deve essersi annegato sul mare.

      – No, si è ucciso a bordo della mia nave, cadendo dall’albero di trinchetto.

      L’inglese si fece smorto in viso, poi, scrollando le spalle, rispose asciuttamente:

      – Bah!… Accidenti che toccano alla gente che naviga.

      Stava per voltare le spalle, quando il capitano lo trattenne, chiedendogli:

      – Non è mai più ricomparso, dinanzi a voi?

      L’inglese invece di rispondere si lasciò cadere su una sedia, pallido, asciugandosi la fronte che doveva essersi coperta d’un freddo sudore. Un tremito fortissimo agitava le sue membra, mentre i suoi occhi esprimevano un terrore spaventoso.

      – Rispondete – disse il capitano versandogli un bicchiere di porto.

      Il gallese tracannò d’un fiato il generoso vino, poi, dopo essersi nuovamente asciugata la fronte, disse con voce rotta:

      – Strano destino che mi ha fatto imbarcare sulla nave su cui quel disgraziato è morto!…

      Successe un breve silenzio, poi il pilota gallese riprese:

      – Ascoltatemi.

      Si passò più volte la mano sul capo come se raccogliesse o cercasse di ridestare dei lontani ricordi, quindi dopo un lungo sospiro riprese:

      – John era mio vicino di casa, abitando entrambi un piccolo villaggio situato sulle spiagge del Mar d’Irlanda.

      «Eravamo buoni amici e andavamo sempre alla pesca insieme. Io credo che difficilmente due ragazzi siano mai andati d’accordo come me e lui.

      «Dall’alba al tramonto eravamo sempre insieme, sicchè gli abitanti dicevano che non era possibile vedere John senza l’ombra di Harris alle spalle, ed avevano ragione.

      Avevamo diciott’anni, essendo nati nella medesima annata, quando fra noi sorse la prima nube che doveva renderci feroci nemici.

      «Fu Mary che gettò fra noi la malìa e che fece di entrambi due disgraziati. Che non fosse mai nata quella maledetta!…

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