Zenith. Saccinto Saccinto
mano lanciò il telefono all’altra, scivolò sotto la stoffa della giacca e cavò un portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lo aprì con il pollice. Tirò fuori con l’indice e il medio un pezzo da cinquanta e lo sventolò verso di me. Il riflesso bianco spalmato sulla punta piatta del naso lo faceva sembrare ridicolo.
«Prendili, dài». Credeva di essere ancora vivo.
La morte è un concetto relativo. Basta solo andarci oltre.
«Ti è mai capitato» dissi «di pensare a qualcosa che non abbia a che fare con la tua vita?».
«Che cosa vuoi dire?».
«Che dovresti pensare di rinunciare ai tuoi appuntamenti».
«Dici che andrà via tutta la notte per tirare fuori la macchina?» gettò il pollice alle sue spalle. La banconota scivolò di nuovo nell’apertura di pelle. La mano scomparve dietro il suo culo.
«Dico che adesso è tardi per pensare a queste cose».
«Dici?».
«Dico che sei morto».
«Morto? Che cosa vuoi dire con morto?».
«Tutto quel buio l’hai visto? L’erba che comincia di punto in bianco nel vuoto? Questa strana luce turchese, queste due braccia enormi che vengono fuori dal terreno?» poggiai una mano sul braccio più vicino, appena raggiunto «Ti sembra la vita, questa? Ti sembra la realtà?».
Si allontanò di qualche passo, si puntò addosso le dita di entrambe le mani.
«E io? Ti sembro uno che è morto? Non lo vedi che sto in piedi? Sono solo uscito fuori strada. Certo, devo aver tamponato qualcosa, adesso non ricordo. Ma poi ho camminato fino a qui» quasi urlò.
I due pugni giganti, con le foglie prese da un leggero fremito, iniziarono a schiudersi sopra di noi. Ci spostammo più indietro. Le ragazze si sollevarono, Ambrose si ritrasse alla loro vista. La ragazza vestita di bianco gli accennò un invito ad avvicinarsi. Il suo viso continuava a mutare. Adesso sembrava quello di una adolescente e anche il suo corpo non era più quello di una donna, le braccia e le gambe si erano fatte più esili e i seni neri, che erano stati sodi, adesso erano appena accennati.
«Che cosa ci fanno nude? Chi sono?» Ambrose si rivolse a me.
Alzai le spalle.
«Ambrose» iniziò la voce della ragazza vestita di nero «Hai ventisei anni. Li hai attraversati tutti senza un solo piccolo dolore e senza un solo piccolo affetto. Non hai mai conosciuto sacrifici o rinunce. Ti sei ritrovato a ventitré anni a capo dell’azienda di tuo padre, senza un percorso di studi, senza alcun merito, ma per diritto di discendenza. Nei giorni della sua morte, non provavi niente. Soltanto la voglia irrefrenabile di prendere possesso dei tuoi nuovi beni per vivere una vita dinamica, in continuo movimento e in continua mutazione. Hai iniziato a cambiare auto e donne come un bambino che fa presto a dimenticare un gioco vecchio per uno nuovo. La tua vita è stata una corsa continua lontano dalla verità che ti sembrava così noiosa e statica. Una vita di continue bugie. Dette a chi? Dette a te stesso. Che ne pensi, hai avuto una morte abbastanza dinamica?».
«Io non sono morto» scattò di nuovo il ragazzo «Mi si è fermata l’auto. Ho avuto un piccolo incidente mentre rientravo. Ho sbattuto contro qualcosa, ma non è stato niente di grave. Vi sto parlando, sono davanti ai vostri occhi. Non sono morto» tentò di convincerci agitando il cellulare.
«Mente a se stesso, come ha sempre fatto, tanto da aver confuso la verità con le sue bugie. Non è in grado di ricordare. E oramai non c'è più tempo. La sua auto corre a grande velocità lungo una strada di campagna. Un sorpasso azzardato nei pressi di un dosso spezzerà la sua vita questa sera. Dovrai evitare l’impatto» la ragazza dal vestito bianco si rivolse a me.
«O lasciare che la morte faccia il suo corso» aggiunse l'altra, con lo sguardo fisso sul volto di Ambrose.
«Tieni a mente che alla sua sono legate tutte le altre vite. A partire dalla tua».
Le dita delle mani da cui ci parlavano iniziarono a richiudersi. Le due ragazze si sedettero senza smettere di guardarci.
«Aspettate» Ambrose riprese ad agitarsi nel completo grigio «Voi non lo sapete, non potete saperne niente, della mia vita e di quello che mi è successo. Voglio sapere chi vi ha detto quelle cose su mio padre, voglio sapere chi siete».
«Siamo spiriti della morte» un sussurro filtrò attraverso il sorriso che sezionò il viso della ragazza dalla pelle bianca «Lei è la Dolce Illusione. Io sono la Pura Verità».
I pugni si serrarono definitivamente, Ambrose si girò verso di me, indicandoli con la punta del telefono tesa alla fine del braccio alle sue spalle.
«Ma lo senti come parlano, lo senti cosa dicono? Sono completamente pazze. E tu credi alle loro cazzate?».
«Io non credo a niente» mi avviai verso il buio.
«Aspetta» la mano di Ambrose mi afferrò una spalla. Mi girai. «Dove stai andando?» chiese.
«Non lo so».
«Benissimo, vuol dire che verrò con te» fece per infilarsi il telefono in tasca. Come uno sciabolare di enormi lamiere, le pareti nere volteggiarono nell’aria del buio immenso davanti ai nostri occhi, al di là del prato turchese, per ricomporre il corridoio oscuro. La mano di Ambrose scivolò giù dalla mia spalla.
«Sei sicuro?» gli chiesi. «Non direi». «Perfetto». Ripresi la via. Questa volta la prima anima se ne restò ferma ad aspettare.
Le nuvole avevano ripreso ad ammassarsi nel cielo sopra la statale srotolata dai contorni vaghi di una città lontana come un lungo tappeto d’asfalto steso in un saliscendi infinito verso la notte. Camminavo affianco al guardrail con gli occhi puntati a terra e calciavo una pietra per farla rotolare in salita. Continuavo a strofinarmi le mani per il freddo.
Non avevo mai avuto un'allucinazione così realistica. In realtà non avevo mai avuto alcuna allucinazione, neppure quando da piccolo lo schienale della sella della bici di un mio amico si era infilato nel manubrio della mia bici mentre impennava e tornando a terra mi aveva catapultato all'indietro facendomi svenire. Non lo so quanto ero stato vicino alla morte quella volta, ma ricordo soltanto un buio leggero e un silenzio di pace. Niente porci giganti o cose del genere. Niente colline tetre, niente anime da salvare per tornare alla vita.
Dietro un vecchio cancello arancione, una lampadina lasciata accesa illuminava i tavoli quadrati e le panche di legno accatastati nel cortile di una balera. Tristi triangoli colorati ondeggiavano nell’aria su un filo sospeso da una parte all’altra del cortile. Il buio si insinuava nei cunicoli contorti tra gli ulivi tutto intorno. Ogni tanto qualcosa si muoveva in mezzo all'erba della campagna. Lanciavo un'occhiata di sfuggita e andavo avanti. Una civetta si alzò in volo dalla chioma di un albero vicino, le grandi ali scure si distesero contro il cielo rossastro, facendomi finire al centro della strada. Mi chiedevo che fine aveva fatto il mondo. Colleterno, Domenico, Claudio, Paolo, i miei unici amici. I miei genitori. Mi chiedevo di Lei.
Mi chiedevo quanto fossero lontani e cosa stesse facendo ognuno di loro. Stavano dormendo di sicuro. Forse vagando attraverso i loro sogni, avrebbero potuto incrociare i miei e intravedermi, avremmo potuto incontrarci ancora. Oppure tutto iniziava davvero a finire e non avrei mai più visto nessuno di loro. Non si sopravvive a una cosa come quella che mi era capitata. Questo non era nient'altro che l'ultimo sogno di un uomo già morto, un film per un solo spettatore, un sogno vivido come un'altra forma di realtà viva dall'altra parte della notte. Mi sentivo perso in una solitudine definitiva, come quando avevo ascoltato per la prima volta quella tristissima canzone degli Smashing Pumpkins, For Martha, di un disco che Claudio aveva comprato da poco. Un incredibile senso di abbandono mi gelò per un attimo e mi fece salire le lacrime agli occhi. Ingoiai, mi strinsi a me, continuai a strisciare gli scarponi sull'asfalto.
Raggiunsi l’unico dosso visibile nel raggio di alcuni chilometri, subito dopo una stazione di servizio, e mi voltai indietro a guardare. Non c’erano fari in avvicinamento, tutto sembrava tranquillo. Mi appoggiai al guardrail col fondo dei jeans, ci sedetti sopra, poi presi a colpirlo a ritmo con i talloni. Tirai fuori tabacco, filtri e cartine.