Lo Senti Il Mio Cuore?. Andrea Calo'

Lo Senti Il Mio Cuore? - Andrea Calo'


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      Andrea Calò

      LO SENTI IL MIO CUORE?

ROMANZO

      Prima Edizione – Maggio 2014

      Questo libro è un’opera verosimile basata su una storia vera. I nomi dei personaggi, i luoghi e alcune situazioni sono stati modificati dall’autore a garanzia della privacy delle persone. Qualsiasi altra analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

      © Copyright 2014 – Andrea Calò

      ISBN: 9788873042891

      @ e-mail: [email protected]

      In copertina: Nicoleta Nuca (su gentile concessione)

      Edizioni TEKTIME

      A mia moglie Sonia, l’amore della mia vita.

      Per sempre.

      1

      Quando anche l’ultimo degli amici lasciò la nostra casa dopo avermi salutata, chiusi la porta a chiave. Ero rimasta sola, e non era solo una solitudine fisica. Sentivo freddo e anche dopo essermi coperta con un maglione di lana la situazione non migliorava. Il mio cuore batteva lento nel petto. Un profondo battito sordo e poi un lungo silenzio che preannunciava la morte, disillusa dal tardivo battito successivo. Ero viva. Sentivo freddo, quindi ero viva. Il sole di maggio aveva spazzato via le gelide giornate invernali già da parecchi giorni, perché su di me non stava funzionando? Guardai fuori dalla finestra. I ciliegi erano già imbiancati da fiori che presto sarebbero divenuti frutti rossi e dolci. Alcuni avevano già ceduto il loro posto, staccandosi dai rami per posarsi a terra o sulle spalle dei passanti, come neve di cotone. Erano fiori senza un futuro o frutti senza un passato, proprio come me. Ma questi fiori colti dalla morte portata da un soffio di vento uccidevano il grigiore del cemento e dell’asfalto, donandogli vita. Io invece mi sarei lasciata solamente marcire sotto terra un giorno, immobilizzata per l’eternità e costretta a guardare le margherite crescere dalla parte delle radici. Oppure mi sarei fatta bruciare e poi riporre in un’urna fredda simile a quella di mio marito, per vedere se esiste davvero l’Inferno e per scoprire l’effetto che fa bruciarci dentro. Seppellita o bruciata, dovevo ancora decidere il mio modo per essere dimenticata. Dimenticata dai miei figli, dal mondo intero e da me stessa. Certa che nulla si sarebbe fermato dopo la mia partenza verso l’eternità. Mi voltai per guardare l’urna, non l’avevo ancora fatto dopo la fine della funzione. Era di colore grigio, un grigio scuro come quel “fumo di Londra” che lui tanto amava e che sceglieva ogni volta che andavamo a comprare un vestito. Pressato dalla mia insistenza, mi compiaceva provando vestiti di altri colori, un po’ più vivaci. Ma alla fine del gioco la merce scelta e deposta sul banco della cassa era sempre la stessa. “Dovrò sentirmici bene dentro, finché lo indosserò”, mi diceva ogni volta. E poi rivolgendosi alla cassiera e provocandole non poco imbarazzo le chiedeva “Signorina, lei cosa ne pensa?”. Ed ecco qui la mia scelta, ancora una volta dettata dalla sua ingombrante seppur impercettibile presenza. Io come la cassiera ho confermato che quell’abito grigio sarebbe stato adatto a lui. Ho pagato in prima persona e sono scappata via con la merce pesante stretta tra le mie mani stanche. Un’urna di colore grigio “fumo di Londra”, il suo ultimo abito, quello che lui non si sarebbe mai più tolto per l’eternità. Mi avvicinai e la accarezzai. La sollevai e sulle mie braccia riuscivo a pesare la sua vita. Sentivo il freddo pungente del metallo guadagnarsi spazio sotto il tocco della mia mano stanca. Mi faceva percepire un senso di calore etereo nel braccio, un calore che scalava il mio corpo avvolgendolo tutto, mi accelerava il cuore. Non capivo se fosse più un fastidio o puro benessere. Vivevo di più, vivevo meglio. Comunque vivevo! Staccata la mano, ecco comparire nuovamente il vuoto che bussava alla mia porta, la mano tornava a scaldarsi, il braccio a raffreddarsi, il cuore a rallentare. Riprendevo lentamente la mia corsa verso la morte. Ma io sapevo che non si sarebbe fermato subito, la sofferenza dettata da quell’abbandono non mi sarebbe stata scontata perché la vita non offre mai “saldi di fine stagione”. Il cerchio si richiudeva su sé stesso e il ciclo ricominciava da capo. Versai dell’acqua nel bollitore e lo accesi. Rimasi per qualche minuto immobile, con gli occhi fissi sulla spia luminosa rossa in attesa che si spegnesse da sola. Anche lei moriva a modo suo, come tutto, come tutti, come sempre. Ma lei poteva ritornare a vivere, poteva rinascere se spinta dall’esterno con una scossa di vita. Proprio com’era successo a me quasi cinquanta anni prima. Con quegli stessi occhi avevo guardato il mio compagno durante gli ultimi istanti della sua vita, i miei occhi immobili che fissavano i suoi, spalancati e altrettanto immobili ma ancora capaci di brillare di luce propria, come la spia del bollitore, con il silenzio fastidioso che solo la vita che lascia il corpo sa creare. Un trambusto creato da disordinati pensieri, immagini di felicità che si ergevano da un mare di lacrime. E sotto il piatto che conteneva la mia felicità c’era lui, l’uomo che usciva dall’acqua come un dio greco, imponente nella sua semplicità, terrificante nella sua dolcezza. Ed io, seduta su quel piatto banchettavo con la mia felicità fino a sentirmi sazia, più mangiavo e più mi sentivo leggera, abile nello spiccare un volo con un semplice balzo.

      Versai qualche foglia di tè verde in un bicchiere e lo arricchii con qualche foglia di menta che avevo congelato, perché si conservasse fresca e profumata. Il suo fresco profumo m’invase, portandomi via per un istante dal puzzo di una vita che sarebbe marcita totalmente in poco tempo. La mia decomposizione era già in corso da ore, giorni, settimane. Da quando lui si ammalò. Non so da quanto tempo e per quanto tempo ancora sarei stata me stessa o colei che gli altri volevano che io fossi. Poi mi voltai di scatto cercando anche l’altro bicchiere, quello che avrebbe usato lui, quello color panna con il suo nome inciso sopra in eleganti caratteri corsivi di colore rosso. Amava il tè alla menta, ne abusava. Era la sua droga quotidiana, non poteva farne a meno. Ricordo che una volta ci dimenticammo di fare la scorta. Era un freddo pomeriggio, nonostante la primavera fosse già arrivata da molto tempo. Pioveva. Arrivate le cinque del pomeriggio e non trovato il tè in casa si arrabbiò parecchio. Non con me, mi disse subito che io non avevo colpe per la sua stupidità. Prese il cappotto, s’infilò le scarpe e scomparve dietro la porta come un fuggiasco inseguito dalla polizia. Io sorrisi, amandolo nella sua goffaggine, per il suo attaccamento alle cose futili. Rientrò dopo un’ora buona, imprecando contro i gestori del supermercato perché avevano finito le confezioni di tè sfuso in foglie della marca che piaceva a lui e non le avrebbero più ordinate. Diceva sempre che nemmeno i negozi erano più quelli di una volta, che sarebbe stato meglio fornire bene gli scaffali dei supermercati piuttosto che spendere soldi per viaggiare nello spazio. Avrebbe dovuto cercare un’altra soluzione, quel giorno si dovette accontentare di tè già pronto in filtri e di marca scadente. Poi mi guardò, si avvicinò a me con il suo sorriso e prendendomi le mani mi consegnò una rosa rossa. “Questa non l’ho presa al supermercato, non avrei mai portato una rosa confezionata alla donna che amo. E’ la prima rosa spuntata nel roseto del giardino nel quale ci siamo incontrati, ricordi? Erano giorni che la curavo e che immaginavo il momento in cui te l’avrei data. Il tè era soltanto un pretesto, posso anche farne a meno. Ma del tuo amore no, a quello non posso davvero rinunciare!”. Lo baciai e lui rimase immobile come spesso faceva, diceva che gli piaceva sentire il sapore delle mie labbra e se anche lui mi avesse baciato avrebbe rovinato il gusto. E allora io lo baciavo ancora, ancora e ancora mentre lui, in silenzio, mi amava sempre di più. Quella sera facemmo l’amore. Fu diverso dal solito, fu ancora più intenso, più profondo e piccante. La rosa rossa ci scrutava dal vaso nel quale l’avevo riposta, ci proteggeva come una guardia della Regina, immobile e composta, più viva che mai seppur immobile. Provai un brivido diverso quando lui si liberò dentro di me, sapevo che qualcosa di grande, di potente e incomprensibile per l’uomo aveva preso vita nel mio corpo in quell’istante. Non era paura, non era dolore. Era il frutto dell’amore che lasciava un corpo e si congiungeva con un altro, catturato da un’anima vagante a noi assegnata e da essa guidato fino al completo compimento del suo tragitto impervio. Il primo viaggio. Il miracolo della vita era avvenuto dentro di me, per la prima volta. Lui mi guardò con i suoi occhi infuocati d’amore e di passione, cercando i miei occhi dai quali aveva cominciato a sgorgare una lacrima. In quella lacrima e nei miei occhi lui vide riflesso il vaso con la rosa. Si fermò, mi baciò, mi sorrise. Posò il suo dito indice sul mio naso, strappandomi un sorriso come sempre e mi disse “Si chiamerà Rose. Ti piace il nome Rose per una bambina?”. Rose arrivò nove mesi dopo, come un regalo caduto dal cielo. Era così gracile, indifesa e semplice. Mi sorrideva sempre, mi


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