La montanara. Anton Giulio Barrili

La montanara - Anton Giulio Barrili


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nuovi tempi e veduto con una certa soddisfazione il ritorno degli antichi padroni. Ahimè! Qual compagnia rumorosa e molesta conducevano quei cari padroni con sè! Non era per le vie che un batter di sproni, e un saltellar di sciabole sul ciottolato. I caffè invasi; i quadrivii occupati, contesi al passaggio dei cittadini; da per tutto un vocìo di ordine ristabilito, di armi vittoriose, di birbanti italiani rimessi al dovere. Anche quei pacifici e timorosissimi sudditi erano Italiani, e l'offesa toccava anche loro. Nè il caro ed amato principe si prendeva la briga di reprimere la burbanza de' suoi alleati, quando nei caffè insolentivano con gli uomini, o per le vie mancavano di rispetto con le donne, o nelle botteghe pagavano quel che volevano, se pure non pagavano affatto. Si narra del ritorno degli Austriaci a Milano (veramente, dopo la caduta dell'effimero regno di Eugenio Beauharnais), che un caldo amico dei vecchi oppressori andò incontro ai soldati delle uniformi bianche, e, vedute entrare le artiglierie in città, preso da un impeto di passione, si fece avanti per toccare con le sue dita un cannone. Tanto amore doveva avere il suo premio, e l'ebbe subito dalla bacchetta di nocciuolo di un caporale, che gli levò dal dorso della mano due centimetri almeno di pelle. Bravi caporali, che picchiavate così sodo; bravissimi tenenti, che facevate suonar così bene gli sproni e saltellare le sciabole sui selciati italiani; eccellenti principi, che non facevate rispettare i vostri fedelissimi sudditi, e lasciavate che i vostri felicissimi Stati fossero trattati come territorio di conquista; grazie a voi tutti, dal profondo dei cuori!

      Così erano alienati dalla restaurazione gli animi di quei medesimi che l'avevano invocata. Frattanto, il giovane Piemonte reggeva contro le esortazioni e perfino contro le minacce dei consiglieri settentrionali. Generalmente, non s'intendeva come fosse spalleggiato, incuorato a resistere, e pareva strano quell'ardimento di un piccolo Stato che manteneva, unico in Italia, la sua costituzione liberale ed ospitava i fuorusciti, i naufraghi di tutte le rivoluzioni della penisola. Ma già tutti intendevano come da quella diseguaglianza di forme e d'indirizzi, che era visibile tra esso e gli altri Stati italiani, dovessero nascere attriti, malumori, quistioni grosse, e un giorno o l'altro ragioni di guerra.

      E poi, quel piccolo Piemonte, che pochi anni addietro aveva dovuto rimettere la spada nel fodero, che aveva dovuto ricevere entro le mura di Alessandria un presidio nemico, sentendo suonare dalla sua musica schernitrice l'inno dei Fratelli d'Italia, quel piccolo Piemonte aveva sollecitamente provveduto a riordinare l'esercito. Un bel giorno, che è, che non è, quel piccolo Piemonte osava mandare ventimila uomini a combattere nella Crimea, accanto agli eserciti di Francia e d'Inghilterra. Le condizioni d'Europa incominciavano a chiarirsi: Francia e Inghilterra da un lato; Austria e Stati minori della Germania dall'altro. Si metteva da questo anche la Russia? Dall'altro si aggiungeva la Turchia. Erano ancora tre contro tre, e il Piemonte nel mezzo, il Piemonte, che, vincendo al ponte di Traktir, accennava di voler crescere ancora, e chi sa, di rifar esso l'Italia.

      Questi i fatti d'allora; queste le ragioni per cui non era mestieri di cospirare, la rivoluzione essendo nell'aria, come l'ossigeno. Quind'innanzi non sarebbe più bisognato dare il proprio nome ad una società segreta, ordire focosi disegni di rivolta a giorno fisso, farsi spiare, correr pericolo di tradimenti e d'insidie. Una parola colta a volo, un'occhiata, una stretta di mano e un sorriso, dicendo le comuni speranze, affratellavano i cuori. Che bisogno c'era egli di dire il giorno e l'ora, se l'uno e l'altra erano vicini? Poteva battere da un anno, poteva battere da due; ma a chi aveva tanto sofferto, a chi ricordava tanti secoli di servitù e di vergogna, due anni, tre anni, anche quattro, si potevano aspettare, maturando i propositi della riscossa. Ormai questa non doveva mancare; i giovani di quella generazione sentivano istintivamente che ne sarebbero stati essi i soldati.

      Il conte Gino era uno di questi cospiratori, senza giuramento e senza parola d'ordine. A Torino, dove la polizia s'immaginava ch'egli avesse preso accordi con qualcheduno, a Torino egli non aveva fatto altro che respirare un po' d'aria libera. Neanche s'era avvicinato a fuorusciti modenesi o parmensi, che egli, figlio di cortigiani ducali, conosceva solamente di nome. Per altro, aveva passeggiato sotto i portici di Po, dove si confondevano tutte le parlate d'Italia, quasi prenunziando l'unità della patria intorno all'aula del palazzo Carignano; aveva incontrato Giovanni Prati e Giuseppe Revere, i due poeti, i Diòscuri della nuova êra italiana, amati, seguiti, acclamati dalla gioventù pensante e volente; aveva udita la tribunizia eloquenza del Brofferio, e la diplomatica parola, qualche volta impacciata, ma sempre piena di pensiero, del conte di Cavour; aveva veduto per via, riverito universalmente, un re soldato, un re galantuomo, che pareva col mobile sguardo prometter sempre un'alzata di scudi per il giorno vegnente; a farvela breve, nei passeggi, nei ritrovi, nei parlamenti, nelle rassegne militari, dovunque, aveva indovinata la cura operosa dei tempi grossi; sentito quasi l'odor della polvere.

      E questo, ritornando a Modena, questo aveva comunicato, senz'aria di mistero, come senz'ombra di millanteria, a giovani della sua età, sebbene, come diceva il direttore di polizia, «non convenienti al suo grado.» Dèi buoni! Quelli erano stati i suoi compagni di studio, i suoi colleghi d'università. Come mai avrebbe potuto egli non considerare uguali coloro che erano stati seduti con lui sulla medesima panca, a sentire le medesime lezioni? Più saggi dei moderni, quantunque niente più fortunati, i tiranni antichi avevano lavorato a rendere la nobiltà ignorante. L'istruzione, a tutti egualmente impartita, accomuna le classi, colma gli abissi e sopprime i confini. Che conti e che marchesi? Queste distinzioni, quando non sono una giunta particolare e naturalissima al nome di famiglie veramente storiche (nel qual caso si potrebbero anche ommettere, senza toglier lustro a que' nomi), non hanno più valore che per le dame, essendo dimostrato che una corona di tre fioroni, o di nove perle, fa ancora un bel vedere sui biglietti di visita e sugli sportelli delle carrozze. Povera feudalità, ridotta ad un semplice ufficio decorativo! Ma siamo giusti, perbacco, e non dimentichiamo che la corona sullodata sta anche bene sulla biancheria, come a dire sui capi delle tovaglie e dei fazzoletti da naso.

      Ai suoi buoni amici plebei, compagni d'università e fratelli di fede,

       il conte Gino Malatesti non aveva nulla da scrivere. L'offerta di

       Giuseppe non poteva dunque favorire la politica. Ma il pensiero di

       Gino, svegliato da quella offerta inaspettata, corse subito ad altro.

      —Tu, dunque,—diss'egli, dopo un istante di pausa,—mi servirai fedelmente? Ad ogni rischio? E mio padre non saprà nulla?—

      Ad ognuna di quelle domande aveva risposto con bella progressione di calore un sì del suo compagno di viaggio.

      —Bene;—ripigliò il conte Gino;—tu puoi rendermi un servizio maraviglioso. Non mi hanno permesso di fare neanche un saluto, temendo forse che il saluto nascondesse Dio sa che cosa! Tu dunque andrai domani, o doman l'altro, al palazzo Baldovini, con un pretesto qualunque…. Potresti, per esempio, riportare un libro, che mi è stato imprestato: il Mauprat, di Giorgio Sand, che è per l'appunto rimasto sul mio tavolino. Con questa scusa cercherai di vedere la marchesa Polissena, e potrai consegnarle il biglietto che io ti scriverò alla prima fermata.

      —Non dubiti, illustrissimo;—rispose Giuseppe;—farò la commissione a dovere. Anche la signora marchesa,—soggiunse poscia, abbassando la voce,—è della buona causa?—

      Gino trattenne in tempo una risata, che già gli faceva impeto alla gola. Ma era buio fitto, e Giuseppe non vide neanche la contrazione dei muscoli.

      —Ah!—disse Gino.—È una dama di alto sentire. Tu le darai notizie di me, del modo in cui son dovuto partire da Modena. Forse domani la cosa sarà conosciuta; ma la marchesa deve sapere che io avevo tentato di vederla. Il biglietto, poi, come farglielo giungere?… Se ti frugano, alle porte?… Capirai che un sospetto può nascere….

      —Sospetti su me, illustrissimo? Non ne hanno.

      —Bravo! E come lo sai?

      —Ne ho avuta la prova;—rispose Giuseppe, sospirando.—Si figuri che m'hanno domandato di fare… la spia. Ed io ho ricacciata la mia rabbia in corpo, ed ho lasciato credere che al bisogno avrei anche traditi i miei padroni. Volevano sapere chi bazzica in casa, che discorsi si fanno…. Ed io ho detto tutto; s'immagini; non c'è niente da nascondere.

      —Lo credo bene!—esclamò Gino.—Ma è strano, sai! È strano che non si fidino neanche di mio


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