Più che l'amore: Tragedia moderna. Gabriele D'Annunzio
il sacrificio e verso il sepolcro, sì bene oltre l'amore e oltre la morte, là dove egli non possa «né soffrire né morire.» Ancóra persiste in lui il fascino della melodìa quando ricorda al servo la notte di Milmil, il cerchio di fuochi, il suono delle tre canne dispari, i Neri che ascoltavano immobili «come se quel canto non fosse straniero ma venisse dal fondo della loro infanzia».
Quale istinto lo inchina così verso il «figlio del cratère»? Dice egli a Rudu: «Sei nato dentro un cratère spento, che si ridesterà». I cratèri sono le fauci bacchiche della Terra. Il morituro cerca forse di compiere la sua ultima comunione con la Natura ignuda, con la Natura immune da ogni indagine della conoscenza, non violata dall'urto di alcuna civiltà. Nell'isolano persiste il tipo primordiale dell'uomo. Costui vive fuori d'ogni epoca e fuori d'ogni ordine sociale. Non è all'estremo ma all'origine della sua stirpe. Egli ha perduto il ricordo del suo passato familiare, la nozione del suo stato civico, il senso della domesticità. È in lui non so che riflesso del Coro originario obediente e compaziente, che vede come il dio soffra e come si trasfiguri. Egli non comprende ma sente, non conosce ma indovina. Sopra tutto, adora e obbedisce. La sua servitù è cieca ma sublime. «Tu sei ancóra capace di cantare con una voce più ferma in un supplizio più crudo, se io te lo comando.» Si ripercuotono nella sua anima semplice le angosce del suo Signore; ed egli appare come l'imagine ripercossa del demone dionisiaco che, dinanzi a lui, si agita e si manifesta. Al suo contatto, l'eroe doloroso è riassalito da un sùbito accesso di selvaggia allegrezza. «Imagina ch'io abbia bevuto l'idromele e che mi ritorni la smania della guerra.» E ripreso dal fremito oscuro della superstizione, ridiventa aleatore, si arrischia di nuovo al gioco facile e terribile per rievocare la potenza della sua volontà che un tempo interrogava la Sorte ma soltanto per contrariarla, ma soltanto per afferrarla alla gola come Alessandro fece della Pitia sul tripode. «Che vale il giuoco, se tu vuoi quel che vuoi?» gli dice il servo. «Mi leggi nell'occhio?» egli risponde; e sa che nell'occhio non ha lo sguardo della volontà invincibile ma lo sguardo stesso del fato che lo possiede e lo trae. Dalla pelle del leone, distesa sul pavimento per ricevere il getto della moneta romana, si leva allora l'imagine di «una gloria che fu silenziosa». Ed egli, che non ha immortalità fuori del Deserto, esprime l'uno de' suoi due grandi vóti funebri: «Accendimi un fuoco di lentisco sopra un nuraghe per memoria e non mi dimenticare nei tuoi canti». Ha veduto nella sua visione, sopra l'isola fiorita d'asfodeli e commossa dall'ànsito dei giganti dormienti, l'altare ciclopico di macigni non cementati se non dal tritume dei millennii.
Così vedrà nell'ombra della basilica romana il colosso di pietra «quasi belva, quasi dio»; ed esprimerà al fratello perduto l'altro vóto, il supremo. «Portagli una corona di cipresso in memoria di me, e deponila su le grandi ginocchia ove sognando mettemmo il nostro avvenire.»
Mirabile fato, quello del superstite domatore di fiumi! Per riuscire a inventare la sua virtù, qual somma di forze ha dovuto egli raccogliere e costringere! Non lo sostiene alcuna ebrezza, né il fascino del canto, né la rivelazione dell'oltrepassato amore. Anche la sua volontà di beneficio diviene inefficace. Egli conosce che ogni consolazione è vana per la creatura che può soffrire sinché più non senta la sua sofferenza. L'anima eroica respinge da sé ogni cosa lene come la ruota che gira vertiginosamente. La compiuta virtù genera la compiuta solitudine. E l'amico e la sorella partendosi da lui, gli ripetono la medesima dura parola: «Dove io vo, tu non puoi seguirmi». Egli è solo come nessun altro. L'acqua ha cessato di sorridere nell'Universo. Ma il regolatore dell'Elemento inesauribile sa dire a sé stesso: — «Taci, o profondo. Consólati d'aver tutto perduto, se in te è rimasto quel senso nuovo che ti farà scoprire domani la nuova sorgente».
«Luce su i culmini sola!» grida la voce dell'Orchestra, con una sonorità trionfale, lacerando il silenzio dell'aspettazione, prima che su l'altura scenica il velo si apra. La mia tragedia risponde a quel grido illuminando tutti i culmini. Ella celebra le più ardue vittorie del coraggio umano su la sventura e su la colpa. Ella interpreta con insolita audacia il mito di Promèteo: la necessità del crimine che grava su l'uomo deliberato di elevarsi fino alla condizione titanica; e conferisce non so che selvaggio ardore patetico all'impeto iterato della volontà singola verso l'universale, alla smània di rompere la scorza dell'individuazione per sentir sé unica essenza dell'Universo. Ella afferma ed esalta l'istinto agonale come solo creatore di bellezza e di signorìa nel mondo. Ella ricorda alla razza dei Caboto l'antichissima sua «vocazione d'oltremare», la sua prima sete d'avventura e di scoperta, la gioia di propagare di là da ogni confine lo splendore della patria, l'orgoglio di stampare l'orma latina nel suolo inospite. Misurando su l'arco romano la prominenza del sopracciglio consolare, ella offre alla terza Italia la visione augurale della sua nuova architettura considerata come il linguaggio della potenza, come il grande atto concorde della volontà che muove i macigni, come il prodigio compiuto dall'ebrezza della volontà che aspira a placarsi nell'arte. Ella in fine santifica il dolore che, trasmutato nella più efficace energia stimolatrice, genera e conserva l'avvenire. Ella glorifica la donna sapiente in una sola cosa: nel donar sé stessa. Dice: «La paura del dolore, la paura di soffrire, non può essere abolita se non da una religione in cui l'Amore sia amato.» Anche dice: «Che ciascun uomo si faccia degno di ricevere un annunzio di perpetuità, avendo fede nella Vita Eterna».
Tale, o amico, è la parola della tragedia abominevole che i catoncelli stercorarii — sia detto con sopportazione — consegnano ogni giorno alla vendetta popolare. Nessuna delle mie opere fu mai tanto vituperata, e nessuna mi sembra più nobile di questa. Col canto senza musica ella si accorda agli esemplari augusti. Sorta dalla mia più vigile angoscia con la spontaneità di un grido, ella sembra composta sotto l'insegnamento assiduo dei primi Tragedi. Ma gli accordi e i riscontri, che io discopro in lei se la contemplo, sono per me stesso inattesi: mi significano le divine analogie della vita ideale, le comunioni misteriose e quasi direi sotterranee che affratellano le creature dello spirito. Quando su la mano pallida ma forte di Maria Vesta che alza il suo velo intravvedo l'ombra del braccio di Eracle che discopre il viso fedele d'Alcesti tornante dall'Ade, io riconosco l'eternità della poesia che abolisce l'errore del tempo. Anche riconosco la verità e la purità della mia arte moderna; che cammina col suo passo inimitabile, con la movenza che è propria di lei sola, ma sempre su la vasta via diritta segnata dai monumenti dei poeti padri.
Per ciò io mi considero maestro legittimo; e voglio essere e sono il maestro che per gli Italiani riassume nella sua dottrina le tradizioni e le aspirazioni del gran sangue ond'è nato: non un seduttore né un corruttore, sì bene un infaticabile animatore che èccita gli spiriti non soltanto con le opere scritte ma con i giorni trascorsi leggermente nell'esercizio della più dura disciplina. Le figure della mia poesia insegnano la necessità dell'eroismo. Uscito è dalle mie fornaci il solo poema di vita totale — vera e propria «Rappresentazione di Anima e di Corpo» — che sia apparso in Italia dopo la Comedia. Questo poema si chiama Laus Vitae: è composto con un'arte demoniaca come quella che foggia gli specchi magici; e opera per continua metamorfosi su le imagini del mondo visibile trasmutandole in segni luminosi del mistero interiore. È il ditirambo delle origini e delle profondità. L'anima vi si agita nel canto come una Menade che abbia rapito il segreto a Orfeo prima di lacerarlo; ma sempre la segue l'ombra eleusina,
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