La famiglia Bonifazio. Caccianiga Antonio
vivendo incognito, ed essendo rappresentato sovente da un individuo giudicato come suddito sommesso e fedele, passava presso le autorità per uomo inoffensivo, dal quale il governo nulla aveva a temere.
E così il capitano Bonifazio congiurava senza pericoli, e senza suscitare il minimo sospetto faceva parte d'una vendita di carbonari. La sua [pg!13] corrispondenza politica non era mai affidata alla posta, e gli arrivava sempre per mezzo di amici, o di messi speciali. Nel mese di maggio del 1820 il capitano Bonifazio dovette recarsi in Polesine per intelligenze con quei Carbonari, e poi a Milano per riferire ai capi della setta lombarda. Domandò il passaporto pel regno Lombardo-Veneto col pretesto di fare un viaggio agricolo, nel quale si proponeva lo studio di alcune colture speciali, che facevano difetto nella provincia di Treviso, come quelle del canape e dei prati a marcita. Il maestro Zecchini fu chiamato alla Polizia per le necessarie informazioni. Egli assicurò il commissario che il signor Bonifazio era un appassionato agricoltore, che aveva già introdotto nella sua campagna delle eccellenti migliorie, e che si disponeva a fare delle altre riforme, le quali avrebbero senza dubbio aumentato il prodotto delle terre, e servito di esempio ai vicini.
Il commissario assentiva col capo, e pensava: «migliorando le terre si potranno accrescere le imposte! questo è un uomo utile all'Impero!» Poi domandava conto del carattere, delle abitudini, delle relazioni del petente; e il maestro rispondeva:
—È un po' bisbetico, si occupa tutto il giorno della coltura dei campi, del giardino, dell'orto; [pg!14] vive solo con un domestico, non riceve mai nessuno, ha dell'ottimo vino, e fa un eccellente cucina; io solo come vicino di campagna ho l'onore di frequentarlo, e di profittare de' suoi cortesi inviti.
«Chi mangia bene e beve meglio non fa l'umanitario, e non si occupa di politica, pensava il commissario; un uomo civile che vive ritirato in campagna non può essere che un misantropo.»
—Andate pure, egli disse al maestro, non occorre altro.
Il maestro curvò la schiena, che quasi toccava col naso lo scrittoio, presentò all'impiegato superiore i più rispettosi ossequi, uscì dalla stanza con ripetuti inchini, salutò gentilmente anche l'usciere, che aveva un'aria da sbirro, poi scese le scale lentamente, col collo torto, e un beato sorriso sulle labbra, pensando fra sè stesso: «l'uomo è un asino, è un asino, è un asino!...»
E questo suo pensiero non proveniva dal benchè minimo sospetto sulle intenzioni e la condotta del capitano, che anzi teneva per vero quanto aveva asserito; ma vedendo che occorrevano tante cerimonie per ottenere il permesso di circolare a proprie spese nel proprio paese, e che tali cerimonie erano vane, perchè generalmente la polizia veniva ingannata dalle domande, dai [pg!15] pretesti, e dalle informazioni, la sua teoria prediletta gli tornava alla mente, e si compiaceva di poter dare dell'asino al commissario nell'intimità del suo cuore.
Pochi giorni dopo, il capitano Bonifazio, col suo passaporto in piena regola, partiva pel Polesine, visitava alcune fattorie rinomate, procurando che l'I. R. Delegato Provinciale di Rovigo venisse a saperlo, e poi senza che nessuno l'avesse visto entrava in una casa colonica, nella campagna deserta, e s'intratteneva per un paio d'ore coi Carbonari venuti apposta da Ferrara, per intendersi con lui sulle armi e le munizioni da introdursi, per distruggere i governi dispotici, dare all'Italia un governo costituzionale, o almeno unire in vincolo federativo i varii governi italiani, tutti però aventi per basi costituzione, libertà di stampa e di culto, parità di leggi, monete e misure.
Predisposta accuratamente la prossima rivolta del Polesine, passava in Lombardia, visitava i corsi d'acqua, i prati irrigatori e le marcite, facendo parlare di lui come d'un veneto appassionato agricoltore; poi scompariva per qualche ora, si abboccava coi patriotti malcontenti, stringeva la mano ai Carbonari lombardi, comunicava le disposizioni delle vendite del Veneto, e veniva [pg!16] informato degli accordi presi coi fratelli del Piemonte.
Dopo quei ritrovi della setta, scriveva qualche lettera al maestro Zecchini e la gettava alla posta colla certezza che sarebbe aperta dalla Polizia la quale violava tutti i segreti. Egli si godeva a corbellare i commissari e il governo, parlando di prati e di vacche svizzere, di canape e di bachi da seta. Raccomandava all'amico le zucche e le patate, e gli prometteva al ritorno le più utili informazioni sulla coltura delle rape.
Dagli amici di Milano ebbe lettere di raccomandazione per qualche coltivatore, e per qualche possidente austriacante della Brianza, sempre collo scopo d'ingannare la vigilanza della polizia; e si recò a visitarli, occupandosi di vigneti e di stalle, benedicendo i benefizii della pace, che si godevano a merito del regime paterno dei buoni Tedeschi. Prese alloggio in un grande albergo, assunse delle informazioni che lo fecero conoscere per esperto agricoltore.
Poi lasciando gran parte del suo bagaglio all'albergo, e raccomandando all'albergatore le sue preziose sementi di bietole, cavoli e carote, annunziò una gita nei dintorni per visitare le colture, e partì solo e pedestre, munito d'una semplice valigietta alla mano. Prese la direzione opposta [pg!17] a quella che intendeva di seguire, e girando per certi viottoli deserti, assicurandosi che nessuno lo vedeva, trovò la sua strada, che lo condusse in un angolo romito delle colline, ove sorgeva una modesta casa di campagna quasi nascosta dai tigli, dai platani, e dalle robinie.
Abitava in quella dimora un suo antico commilitone, un valoroso colonnello degli eserciti napoleonici, un fiero soldato, un ardente patriotta, che non aveva mai potuto comprendere come gl'Italiani si fossero rassegnati a subire l'umiliazione d'un governo straniero. Acerrimo nemico dell'Austria, egli congiurava come capo carbonaro contro l'aborrito governo, ma sapeva operare con tale avvedutezza che non comprometteva mai nessuno, apparecchiava le riunioni, dirigeva la congiura con sommo accorgimento, e metteva tanta astuzia nel gabbare i sospetti del governo, nello sviare le ricerche della polizia, nell'abbindolare le commissioni speciali, che il suo grande maestro, il generale Napoleone, non avrebbe impiegata tanta avvedutezza nell'apparecchiare il piano d'una battaglia.
Odone Palanzo era un antico cospiratore, ancora giovinetto si era acceso di entusiasmo al primo raggio della nascente libertà. La portentosa discesa del San Bernardo, compiuta dall'esercito [pg!18] francese condotto dal generale Buonaparte, la sua improvvisa comparsa in Italia, la battaglia di Marengo che liberava il Piemonte e la Lombardia dagli Austriaci, esaltarono lo spirito liberale del giovane italiano, il quale detestava il regime debilitante del governo straniero che conservava sotto il giogo una popolazione rassegnata, e non curante della sua sorte nè dell'onore del paese.
Egli non rifiniva di ammirare e celebrare l'eroica difesa di Genova, il carattere e le prodezze dei vincitori dei Tedeschi, l'impassibilità di Massena durante l'assedio, la fermezza di Lannes sul campo di battaglia, la carica di cavalleria di Kellermann, la risoluzione fortunata di Desaix. E quando tre giorni dopo di quella famosa battaglia Buonaparte entrava in Milano sul far della sera, il giovane lombardo si trovava fra quella folla plaudente che gettava fiori nella carrozza del primo Console, che procedeva lentamente nelle strade accalcate e illuminate a giorno.
Allora si arruolò come semplice soldato, quantunque avesse moglie e una bambina, fece il giro d'Europa, guadagnò i suoi gradi ad uno ad uno, da caporale a colonnello, fu ferito in varie battaglie, e non depose le armi che dopo l'ultima campagna di Russia, dove ridotto all'estrema miseria, [pg!19] lacero, esausto dalla fame, e quasi cieco, sarebbe morto sulla neve se non avesse incontrato il capitano Bonifazio che lo sostenne, lo guidò, lo nutrì di crusca bollita e di carne di cavallo; e attraverso a mille pericoli poterono entrambi ripassare la Beresina, dopo le più strane venture. Giunti in Polonia come due fantasmi da far paura a vederli, fecero una lunga dimora negli ospitali, fino che ristabiliti in salute, ritornarono a Parigi, e ripresero servigio fino alla caduta di Napoleone.
Rimandati in patria, il capitano Bonifazio accompagnò l'amico alla casetta di Brianza, dove il colonnello lo presentò alla famiglia come il suo salvatore.
La moglie era un'ottima donna; e la figlia Maddalena, una bella ragazza, con due grandi occhi che ne rivelavano la bontà, era stata allevata dalla madre alle cure domestiche e rurali. Entrambe vivevano modestamente colle rendite di alcune terre che stavano intorno all'abitazione. Vedevano poca gente, e assai di rado il loro capo di casa, il quale di tratto in tratto compariva all'improvviso, si fermava alquanti giorni, e spariva. Scriveva poche lettere e laconiche, sempre da nuovi paesi, da varie parti d'Europa. Il colonnello aveva un fratello più