Il roccolo di Sant'Alipio. Caccianiga Antonio

Il roccolo di Sant'Alipio - Caccianiga Antonio


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e fremeva di sdegno, di diffidenza, di paura. Maddalena non intendeva ragioni, essa pensava a suo figlio, e si disperava di vederlo caduto in mano dei barbari, la Betta piangeva, Bortolo aveva il viso sconvolto dalle varie e successive emozioni di quella notte, e dava ragione a tutti contraddicendosi senza avvedersene: quando Michele annunziava la volontà degli italiani, egli alzava i pugni minacciosi, quando sior Antonio accusava i giovani di imprudenza egli assentiva coi segni del capo; piangeva e minacciava, ora sembrava spaventato dalla sorte del suo padroncino, ora mostrava di non temere tutte le forze dell'Austria, e pareva che le dichiarasse una guerra d'esterminio.

      Dopo una lunga discussione, senza poter concordarsi sopra un piano da seguire, sior Antonio pensando che la sorte di Michele non era ancora decisa, gli chiese:

      — E voi che cosa pensate di fare?

      — Bisogna che me ne vada.... egli rispose, meglio uccello di bosco che uccello di gabbia.... ma sono qui senza vesti, senza denaro, e nell'impossibilità di rientrare.... perchè un sacripante mi aspetta per prendermi al collo.... mi aspetterà un bel pezzo quel minchione!... se volesse prendere in cambio mio zio!... sono gli orsi che si devono mettere in gabbia!...

      Sior Antonio non lo ascoltava che distrattamente, stette alquanto pensieroso, poi ordinò a Bortolo di dar l'avena alla Nina, e di tenerla pronta a partire, e condusse Michele nello scrittoio, ove tenne con lui una conferenza assennata e senza testimoni, per fissare il modo di sottrarre dagli artigli tedeschi colui che poteva ancora sperare di mettersi in salvo; e sulle misure da prendersi per giovare a Tiziano che colto per sorpresa non aveva potuto provvedere alla sua libertà.

      Michele ricevette da sior Antonio del denaro, del quale gli rilasciò ricevuta, e Maddalena lo fornì di biancheria e d'altri oggetti indispensabili, che vennero collocati in un piccolo sacco da viaggio, e dopo di aver ringraziati con parole cordiali quei buoni amici, augurò loro che non avessero a soffrire lungamente per la detenzione di Tiziano, pel quale li assicurava che non ci potevano essere motivi fondati per procedere; e prima dell'alba, uscito da quella casa con ogni precauzione, entrava in un sentiero nascosto fra i boschi, e andava a riuscire sulla strada maestra, a qualche distanza dal paese, ove Bortolo doveva subito raggiungerlo colla timonella tirata dalla Nina.

      Sior Antonio rientrato in cucina procurò di calmare sua moglie che continuava a piangere dirottamente, e le disse:

      — Bisogna aver coraggio, e non abbandonarsi ad una sterile disperazione. Le lagrime non possono servirci a nulla. Adesso invece dobbiamo occuparci seriamente del nostro Tiziano. Appena giorno io andrò dal commissario per vedere che cosa pensa di fare, poi ho l'intenzione di far una visita al consigliere, per aver qualche consiglio utile, da un uomo esperto in queste faccende. E tu non lasciarti vedere troppo accorata dalla gente; e questo per due motivi: prima di tutto si farebbe torto a Tiziano, lasciandolo credere colpevole, poi sembrerebbe che la nostra famiglia conosciuta pei suoi antichi sentimenti di patriottismo, fosse disperata alla prima prova, e scoraggiata alla prima sventura. Animo dunque, chiudiamo l'amarezza nell'anima, e mostriamoci forti nella sventura.

      E preso il cappello se ne andò prima di tutto da Sior Iseppo per avvertirlo dei provvedimenti presi riguardo a suo nipote, e sulle misure fissate d'accordo con lui per facilitargli la fuga.

      Trovò il vecchio ancora indignato contro i tedeschi che si erano permessi di rompergli il sonno, come se non avessero potuto arrestare suo nipote senza disturbarlo.

      Sior Antonio gli rese conto di quanto aveva fatto per Michele, facendogli sperare di poter fra breve ricevere sue notizie da un luogo sicuro. Sior Iseppo alzando la destra, fece un rapido movimento che pareva volesse significare: — che il diavolo se lo porti in malora! — e continuò a lamentarsi che gli avevano sconvolta la casa per cercarlo e che in fine dei conti un po' di prigione non gli avrebbe fatto male per insegnargli l'economia, la disciplina e la quiete. — Uhm! uhum! mormorava sior Iseppo, teste calde!... gioventù senza giudizio!... — Tuttavia volle regolare i conti e restituire a sior Antonio il denaro sborsato, ma lamentandosi continuamente dei disturbi, delle spese, dei sacrifizi ai quali si trovava esposto per le scapataggini di quel matto di suo nipote.

       Indice

      Intanto che Michele prendeva la strada di Auronzo per cercare un rifugio in casa d'un amico, Tiziano partiva per Venezia accompagnato dal commissario che era venuto ad arrestarlo e scortato da due gendarmi a cavallo, che trottavano in fianco della vettura; e quando sior Antonio si recò alla mattina dal commissario distrettuale per aver notizie dell'arrestato, questi era già partito da un pezzo.

      Il povero padre sorpreso a tale annunzio protestava vivamente, voleva seguire subito suo figlio, ma il commissario lo consigliò a starsene in casa tranquillo, assicurandolo che se non era colpevole sarebbe rimandato in famiglia fra pochi giorni, e lo esortava a confidare intieramente nella clemenza del paterno regime di Sua Maestà Imperiale Reale ed Apostolica, la quale non voleva altro che la felicità de' suoi sudditi. Il padre desolato non rispondeva per non aggravare la condizione del figlio, ma frenava a stento la sua indignazione e i suoi sospetti, avendo udito a narrare tante volte i processi del vent'uno, le condanne a morte ed all'ergastolo, le lunghe prigionie dello Spielberg ove degli uomini onesti che non volevano altro che l'indipendenza della patria, erano stati trattati peggio dei ladri e degli assassini, e fremeva pensando a suo figlio caduto in quelle mani spietate. Però dovette fingersi fidente e rassegnato e ritornarsene a casa a riferire il risultato della sua visita.

      Intanto la notizia dell'arresto s'era diffusa nel paese, tutti ne parlavano con sdegnosa sorpresa, in piazza si formavano dei capannelli di persone ove taluno raccontava il fatto alla sua maniera agli uditori indignati. I quattro gendarmi che erano rimasti a Pieve andavano in giro a due a due, sospettosi e guardinghi, vedendo che la gente li guardava con disprezzo, e quasi in aria di sfida.

      Un amico di Tiziano corse a dar relazione del fatto al roccolo di Sant'Alipio, fece piangere Maria e dovette consolarla colle solite speranze, mentre suo padre Isidoro, maledicendo l'odiato aquilotto bicipite salì nella sua camera e si mise in tutta fretta a bruciare varie carte.

      Sior Antonio rientrato in casa trovò sua moglie malata, assalita da convulsioni, impaziente di aver notizie del figlio, amareggiata di non riceverne, e vari amici di famiglia che lo assalirono di pressanti domande; chi voleva sapere se la tal carta era stata sequestrata, se la tal lettera era stata distrutta in tempo, e chi voleva conoscere i particolari della perquisizione, e chi la fuga di Michele. Dopo di aver soddisfatto alla meno peggio ai desideri di ciascheduno, sior Antonio si ritirò nello scrittoio, e scrisse una lunga lettera ai suoi padroni raccomandando il figlio e chiedendo consigli.

      Più tardi gli venne in mente di fare una visita ad un I. R. consigliere di Tribunale posto in quiescenza col titolo di consigliere imperiale, che viveva in Pieve in grand'auge presso tutte le autorità governative, come uomo influente pei suoi rapporti nelle alte sfere, e di raccomandarsi alla sua protezione, pregandolo di volerlo indirizzare sulla condotta da tenersi per far risaltare l'innocenza dell'arrestato.

      Il consigliere imperiale era un personaggio grave e compassato che nel lungo servizio austriaco aveva acquistata quella rigidezza tedesca, che rende gli uomini duri, e tutti d'un pezzo. Egli aveva una fede illimitata nella potenza assoluta della monarchia austriaca, non ignorando però che era detestata dai cadorini, amici della libertà, e insofferenti del giogo tedesco.

      Sior Antonio venne fatto entrare dalla governante nello studio, ove gli si affacciò subito allo sguardo un grande ritratto di S. M. I. R. A. Ferdinando I per la grazia di Dio Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria, di Boemia, di Lombardia e Venezia, con dieci o dodici righe di titoli che finivano col gran Voivoda del voivodato di Serbia, e i soliti ecc., ecc. Sulle altre pareti della stanza pendevano gli arciduchi e marescialli, come in corteggio del sovrano, sotto al quale siedeva in poltrona il consigliere imperiale, davanti lo scrittoio, come un magistrato in funzione, col volto raso, e cravatta bianca. Egli accolse l'introdotto, col solito sussiego, accompagnato da un sorriso d'indulgente benevolenza, e se lo fece sedere dirimpetto.

      Sior Antonio gli raccontò in poche parole la sua disgrazia, con quei commenti,


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