Tornanti. Pamela Fagan Hutchins
settembre 1976, ore 2 di notte
Patrick
Se c’era una cosa che Patrick aveva imparato lavorando al pronto soccorso del Parkland Memorial Hospital di Dallas quando era uno studente di medicina, era che dopo la mezzanotte non succedeva niente di buono. Forse nella sonnolenta cittadina di Buffalo, nel Wyoming, non si trovava ad avere a che fare con prostitute con le mascelle fratturate, adolescenti in overdose, teppisti con una pallottola in mezzo agli occhi, o avventurieri del sesso riluttanti a spiegare come mai avessero un criceto infilato nel loro posteriore. Ma comunque, quando il telefono squillava alle due di notte, sapeva che non era niente di buono.
Si girò e scosse sua moglie, che aveva involontariamente sepolto sotto strati di coperte, togliendosele di dosso durante la notte. «Susanne, devo andare dentro.»
«Stai attento», borbottò lei in modo automatico. Le stesse parole che diceva sempre, ed era certo che non fosse uscita dal sonno REM.
«Susanne, Susanne.»
«Cosa c’è?» La moglie si mise seduta di scatto con aria sospettosa, gli occhi sgranati e i capelli arruffati, nella debole luce della luna che entrava dalla finestra. Ma, anche così, era maledettamente bella. Il suo cuore fece una capriola. La stessa donna di cui era innamorato da quando aveva quindici anni ed era uno studente modello alla A&M Consolidated High School di College Station, in Texas.
Le toccò la guancia. «Tutto a posto. Devo andare in ospedale. Puoi assicurarti che tutti finiscano di fare i bagagli domattina, nel caso tornassi tardi?»
La moglie si rigettò indietro sul cuscino. «Sicuro.»
«Grazie.»
Si vestì quasi al buio con gli abiti che aveva lasciato fuori la sera prima; dopotutto era il medico di guardia. Prima di andarsene, premette le labbra sulla tempia di Susanne. Un “hmm” soddisfatto interruppe il suo lieve russare. Patrick attraversò velocemente la zona giorno del piano superiore, scese al piano inferiore ─ che era costruito sul fianco di una collina ed era per lo più un seminterrato ─ e uscì dalla porta d’ingresso per andare alla sua auto parcheggiata sul vialetto circolare. Dato che non aveva un garage, doveva farsi quel pezzo a piedi tutti i giorni.
Si mosse con fare furtivo, usando le tecniche indiane della camminata della volpe che aveva imparato da bambino nei boy scout. Bisognava abbassarsi con le mani sulle ginocchia, sollevare il piede in alto, appoggiare l’esterno del piede, poi l’interno, poi il tallone, l’alluce e infine appoggiare il peso. E avanti così. Se qualcuno lo avesse visto, si sarebbe sentito sciocco a farlo, ma era solo ed era una buona pratica per l’imminente gita di caccia. E poi stava giusto passando sotto la stanza di sua figlia Trish e di sicuro non voleva svegliarla. Sarebbe stato già abbastanza brutto quando li avrebbe fatti alzare tutti alle nove in punto, salire sul pick-up e via in montagna. Dio, salvami dagli adolescenti lunatici. Perry non era tanto male avendo solo dodici anni, ma sarebbe arrivato anche il suo momento.
Chiuse la portiera della sua Porsche 914 bianca il più silenziosamente possibile. La sera prima l’aveva parcheggiata in previsione di una partenza notturna, puntandola in discesa e tirando il freno a mano. Tolse il freno e lasciò che l’auto sportiva prendesse velocità finché non fu quasi in fondo al vialetto. Mentre era in corsa sull’ottovolante, abbassò i finestrini. L’unico rumore che si udiva erano le ruote sulla strada sterrata. Poi mollò la frizione e la Porsche prese vita con un ruggito.
Il tragitto fino all’ospedale di solito durava solo cinque minuti, ma erano sempre cinque minuti di terrore. I cervi suicidi e le basse roadster erano una combinazione mortale: i cervi uscivano in forze al tramonto, spaventando le auto fin quasi all’alba.
Susanne lo aveva aggredito per aver comprato la Porsche. C’erano solo due conducenti nella loro famiglia, gli aveva ricordato, e avevano già due auto: la station wagon color bronzo di lei e il suo vecchio pick-up. Probabilmente non era ancora il momento di dirle che aveva messo gli occhi su un aeroplano Piper Super Cub ora che aveva la patente di pilota. Ma la Porche gli piaceva. E, dannazione, quando un uomo si era sposato a diciannove anni con l’unica ragazza della sua vita, aveva avuto un figlio a venti e si era arrangiato a fare diversi lavori mentre studiava medicina solo per permettere loro di sopravvivere, beh, quell’uomo si meritava una Porsche non appena se la poteva permettere. Non era una cosa così esagerata, aveva comprato quella più economica. Ma sopra c’era pur sempre la scritta PORCHE, come sui modelli più sofisticati, e rimuovendo l’hard top nero si trasformava in una decappottabile. Era stato orgoglioso di aver speso poco, fino a quando non aveva ben presto consumato i risparmi per gli speciali pezzi di ricambio e per meccanici che conoscevano solo auto americane e grandi camion. Quando si fermò al semaforo, il motore si mise a scoppiettare come se gli stesse leggendo nel pensiero.
«Basta. Ho deciso. Metterò in vendita questa stronza», disse tra sé e sé.
Con la coda dell’occhio vide un altro autista dall’aria stanca che lo fissava dalla corsia a fianco. Era un ragazzo su un pick-up con i finestrini alzati.
«Cos’hai, amico, non hai mai visto nessuno parlare da solo?» L’altro lo salutò con il capo. «Almeno so sempre che avrò una risposta intelligente.»
La luce divenne verde. Patrick dette una grande accelerata. La Porsche partì ruggendo ma il pick up schizzò via davanti a lui. Quella piccola auto sportiva era tutto fumo e niente arrosto. Il motore rombava che era una meraviglia, ma praticamente aveva la stessa ripresa del suo vecchio Maggiolino Wolkswagen di un tempo.
Guidando lungo la pittoresca strada principale in stile western di Buffalo, illuminata da tenue luci, Patrick passò sotto i festoni che celebravano il bicentenario – un evento che la cittadina aveva preso a cuore e che durava tutto l’anno - e pochi minuti dopo parcheggiò fuori dal pronto soccorso nello spazio riservato al medico di turno. All’interno, una luce fluorescente ronzava e lampeggiava, conferendo all’austero spazio un’atmosfera surreale come nella serie Ai confini della realtà.
Andò subito dal radiologo, quello che lo aveva svegliato con la telefonata. Nella maggior parte degli ospedali erano le infermiere di turno a chiamare. Ma questo succedeva perché non avevano Wes. «Di che si tratta, Wes?»
Il tecnico era una spanna più alto di Patrick e pesava venti chili di meno. La sua divisa blu da medico non gli arrivava alle caviglie. «Beh, Doc, si tratta di una possibile frattura alla gamba.»
Wes lo disse in modo professionale, ma Patrick colse uno scintillio nei suoi occhi. Cosa poteva esserci di divertente in una gamba rotta alle due di notte? «Dov’è il paziente?»
«Fuori nel parcheggio, ovviamente.»
Patrick si stava dirigendo verso l’interno del pronto soccorso, ma si fermò e si girò verso il suo collega, guardandolo in faccia. «E non lo portiamo dentro?»
«La. E no, non credo che sarebbe una buona idea.»
«Qual è il problema?»
«Nessun problema.»
«C’è qualcosa che non so?» Di solito non doveva tirargli fuori le risposte. Forse il radiologo aveva sonno. Era fiacco. Come lui.
«Non saprei, Doc. Vuoi che venga con te a vederla?»
Patrick fu certo che Wes stesse quasi ridendo. «Certo che sì.»
I due uomini uscirono insieme e incontrarono un giovane con blue jeans impolverati, una logora camicia western e un paio di stivali consumati. Era in piedi ai margini del parcheggio e quando li vide si tolse il cappello.
«La ringrazio tanto per essere venuto.» La mano che si protese verso quella di Patrick era callosa e ruvida come carta vetrata, e gli stritolò la sua. «Sono Tater Nelson.»
«Dottor Flint. Mi hanno detto che c’è una possibile frattura alla gamba.»
«Sì, dottore.»
«Come si chiama la paziente?»
«Mildred.»