La plebe, parte I. Bersezio Vittorio

La plebe, parte I - Bersezio Vittorio


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sento che non ha torto, quando mi dice che sono un fannullone, un tristo arnese e che ho messo sulla paglia la mia famiglia… Sulla paglia? Ne avessimo almeno di paglia!.. Ma mia moglie, alla mia povera moglie, concede tutto ciò che domanda; e se ella osasse andarci più sovente… ma la si vergogna… e massime per me che le tocca sempre difendere innanzi al marchese… Breve! Quello lì è un ricco di cui non si ha da dir male.

      – E tu sei uno sciocco che non sai ciò che ti peschi: proruppe Marcaccio. To', bevi ed ascoltami.

      Tracannato egli medesimo un colmo bicchiere di vino, Marcaccio ripigliava:

      – Quante lire di reddito ha quel galantomone d'un marchese, come tu lo chiami? Ducento mila di certo, e forse più: non è vero?.. Bene. Per vivere ad un uomo quanto occorre, eh?.. Non sapresti dirlo tu, Andrea?.. To', se ti dicessero a te adess'adesso: ti diamo due mila lire all'anno e non hai più nulla da fare, sacr…! tu faresti di salti da toccare il cielo col naso. Vivresti per benone tu e la tua famiglia che siete in sette. Non è così? Or be' a quel marchese facciamola alla larga e diamogli tante duemila all'anno quante persone di suo sangue ha in casa. Duemila lire per lui, due mila per quel superbione di suo figliuolo, un arrogante quello lì che spero non vorrai portare in palma di mano ancor esso; duemila per la moglie del marchese, anche quella una schizzinosa che le vien del cencio solamente a guardarci, duemila ancora per la nipote del marchese, la signorina Virginia…

      Lo sconosciuto che stava ascoltando diede in un lieve sussulto all'udir quest'ultimo dolcissimo nome: Andrea si riscosse ancor egli ed interruppe:

      – Oh quella è una brava creatura del buon Dio… è una bellezza!.. Cisti! Che bellezza!

      – Buono! Riprese con rozza impazienza Marcaccio. Questo non ci ha da che fare. La bellezza di quella immagine dipinta non è fatta per noi miserabili straccioni; e non me ne importa una pipa rotta… Gli è dei lughi che io mi do pensiero… Dunque supponendo che a sto benedetto marchese rimanessero ottomila lire all'anno da mangiarsi in santa pace, non ti pare che avrebbe più che il bisognevole? Cospettone! Altro che!.. Da duecento mila lire togline ottomila, restano cento novantadue mila lirette che a mille franchi ciascuno potrebbero far tranquilli e beati due centinaia di poveri diavoli, come siam noi, io e tu, per mille terremoti! Dico bene? Non è chiaro codesto come due e due fan quattro?

      Ed Andrea sempre più stupidito dall'ebbrezza balbettava:

      – Sicuro, sicuro; gli è chiaro.

      – Povera ignoranza! Mormorava fra sè lo sconosciuto.

      Intanto l'oste era giunto al desco dei due bevitori ed ammiccando in un certo modo a Marcaccio, perchè tacesse, s'era seduto sulla panca vicino ad Andrea.

      – E così, compari, aveva incominciato a dire, come la va?

      Marcaccio guardò lo interruttore di mal occhio.

      – Che cosa vieni a ficcar qui il tuo becco, figliuolo della versiera? Gli disse con isgarbo. Chi ti ha chiamato?

      E l'oste, facendo boccaccie che lo sconosciuto non poteva scorgere e strabuzzendo sempre gli occhi, per accennare all'uomo che aveva di dietro:

      – Che? Rispose. Ti rincresce ch'io venga a domandarti come stai e scambi con voi altri quattro chiacchere?

      – Un corno! Gridò Marcaccio. Ne abbiamo noi in via di chiacchere che sono più interessanti delle tue cianciafruscole. Non è vero, Andrea?..

      E qui, cambiando ad un tratto di tono, come aveva cambiato di pensiero, secondo che succede alla mente in preda ai fumi del vino, soggiunse:

      – Appunto! Tu Pelone che sei volpe vecchia puoi aiutarmi a far capire certo ragioni qui a mastro Andrea che è l'uomo più scrupoloso e più pan bagnato del mondo.

      L'ubbriaco si riscosse.

      – Io, pan bagnato?.. Corpo d'una saetta, Marcaccio, son capace di mostrarti…

      – Mostrarmi le ciambelle. S'io ti dicessi: c'è un bel colpo da fare a questo marchese, e se tu mi aiuti n'avremo in tasca dei bei giallognoli…

      L'oste si mise a tossir forte, e di sotto alla tavola diede una gran pestata ad un piede di Marcaccio.

      Questi ruppe in una sconcia bestemmia:

      – Guarda che fai, oste della malora; mi storpii un piede.

      – Al marchese!.. Un colpo! Balbettava Andrea. Di bei giallognoli in tasca!.. E pane pei miei figliuoli…

      – Sicuro!.. Pane ed anche companatico… purchè tu voglia.

      – No, no, non voglio… Al marchese… Mio benefattore!

      – Uh! l'imbecille! susurrava Marcaccio fra i denti, guardando di traverso Andrea.

      – Uh! l'imprudente! mormorava Pelone guardando con dispetto insieme e compassione Marcaccio.

      – Bene: riprendeva quest'ultimo. Il tuo marchese lasciamolo Stare; ma c'è un altro riccone di nostra conoscenza che credo non vorrai difendere: il sig. Nariccia, il tuo padron di casa.

      A quel nome tutto s'annuvolò l'aspetto di Andrea.

      – Un birbante! Esclamò egli con uno scoppio di voce.

      – Siamo d'accordo: soggiunse Marcaccio. Ed ha i marenghini a palate; ed io so ben bene dove li ripone. Quei marenghini li ha spremuti dai poveri. Pigliarglieli è fare opera meritoria.

      L'oste, che aveva invano fino allora tentato ogni mezzo indiretto per far tacere Marcaccio, pensò che era tempo di ricorrere a più efficaci spedienti.

      – Ah ah! Diss'egli con un suo riso forzato. Marcaccio è poi sempre quel medesimo che vuol ridere… Le sono le sue solite facezie…

      – Facezie! Interrompeva Marcaccio guardando minaccioso Pelone entro gli occhi. Facezie una maledetta!..

      Ma l'oste, curvatosi all'orecchio di lui, gli susurrava in fretta in fretta alcune parole che avevano la virtù di fargli cambiare improvviso l'espressione della fisionomia e di farlo sussultare sul suo sedile. Gettò egli ratto lo sguardo sull'uomo che stava col ragazzo al desco li presso, e siccome lo sconosciuto era lontano le mille miglia dal supporre i giudizi che si facevano di lui e i pericoli che lo minacciavano, Marcaccio potè vederlo nell'attitudine che aveva d'un attento ascoltatore dei discorsi de' suoi vicini.

      Marcaccio diede un gran pugno sulla tavola che fece trabalzare bottiglie e bicchieri, mandò una fiera bestemmia e disse con tono che non prometteva niente di bene:

      – Ora lo aggiusto io!

      Si alzò in piedi e si raffermò sulle gambe che gli traballavano un poco, poi datosi un'aggiustatina a quel brandello di cencio che gli serviva di cravatta, rimboccate le maniche sfilacciate agli orli della casacca, mentre fulminava con isguardi pieni di minaccia lo sconosciuto, venne a piantarsi innanzi a quest'ultimo in atto pieno di provocazione.

      L'imprudente ascoltatore del colloquio dei due beoni, non tardò ad accorgersi delle ostili intenzioni di Marcaccio, e ne apparve molto contrariato e dirò meglio sgomento. Si trasse egli indietro contro la parete, e là sembrò quasi rannicchiarsi in se stesso, mentre i suoi occhi s'abbassavano paurosi a terra e una pallidezza, maggiore di quella ch'egli aveva quando era entrato in quel luogo, tornava a distendersi sulle sue guancie che il calore di quell'ambiente aveva d'alquanto colorite. Con una ratta sbirciata di sottecchi guardò se il piccino avesse terminato il suo pasto, e certo gli sarebbe stato gradita cosa che ciò fosse, ed egli potesse svignarsela di subito; ma il ragazzo era nel migliore della sua cena; un'altra occhiata intorno alla stanza lo ammonì che in ogni possibil caso, fra tutta la gente che vi era colà, egli non avrebbe potuto trovare aiuto o difesa.

      Marcaccio tese una delle sue mani grosse, nere e villose, stretta a pugno, verso la faccia dello sconosciuto, e gli disse con tono affatto rispondente all'insolenza delle parole:

      – Orsù, mio bel fusto, qui abbiamo da assestare i conti.

      Il giovane così interpellato alzò un momento gli occhi su chi gli parlava: ma li chinò tosto, appena incontrati quelli ferini di costui, che lucevano sinistramente in fondo alle occhiaie sotto le spesse e fulve sopracciglia.

      – Che


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