Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I. Elia Augusto

Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I - Elia Augusto


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      Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

      PREFAZIONE

      Ai miei Vecchi Compagni d'Armi!

      Ai giovani d'oggi!

      Mai, come in questo momento che scrivo, e che ho davanti a me sul tavolo, raccolte le bozze dei miei "Ricordi", ho sentita tutta la religione delle memorie, e il conforto dell'opera prestata per la redenzione della patria.

      In queste pagine povere e modeste, si seguono, in folla, uomini ed episodi, confusi nella nebbia del tempo e delle vicende, vivi, però, nel cuore di quanti parteciparono alle epiche lotte della italica rivendicazione.

      Come da un prisma, vividi e smaglianti si sprigionano i colori, così dalle memorie, netti e purissimi vivono gli uomini che furono – le battaglie combattute – le lotte fierissime sostenute gli ideali mai piegati e mai domi – le turbinose vicende che tempo ed uomini non poterono infrangere o tramutare.

      E malgrado io sappia che un pensiero scettico domina e vince gli uomini dell'oggi – pure non reputo inutile il pubblicare questi "Ricordi" – documento autentico d'una epoca fortunosa e grande – fiore modesto che io depongo sulle fosse dimenticate e su' marmi onorati – lauro votivo a quanti alla patria dettero la giovinezza, il sangue, gli entusiasmi, la vita.

      E voi, scettici beffardi, che irridete le gloriose memorie delle nostre battaglie – Voi che dovete l'attuale libertà alla fede da noi sentita e alle lotte da noi sostenute – Voi che educate la odierna gioventù alla negazione di quel sentimento patriottico che fu il culto dell'epoca nostra – Voi che tentate distruggere col freddo sofisma o col gelido e immeritato disprezzo, le pagine più belle e più gentili della storia del popolo nostro – Voi, scettici per opportunismo, leggete questi modesti "Ricordi" ove palpita, freme e grida dolente l'anima mia – un'anima di soldato che ebbe ed ha un solo ideale: la patria! e che vorrebbe che, come una volta, s'effuse sangue generoso, si prodigasse oggi intelletto, operosità e cuore per completarla e mantenerla grande, prospera e temuta.

      Leggete e se non troverete la bellezza della forma e della frase letteraria studiatamente convenzionale, voi vedrete, invece mano a mano riapparire e palpitare uomini che furono e sono gloria e vanto dell'Italia nostra, e dopo questi, altri ed altri ancora, che il facile oblio trascinò troppo presto fra la folla dei dimenticati.

      Ed allora son certo – se il vostro cuore, non sarà precocemente pervertito dall'opportunismo moderno – che anche Voi, resi men scettici dalla lettura di questi "Ricordi", vi riconcilierete col passato glorioso che è eredità di popolo generoso – e comprenderete che il patriottismo non è una forma arcadica morta, mentre esso vive e vivrà nel pensiero e nel cuore dei popoli liberi, fino a che sarà culto gentile la riconoscenza per i fattori della nostra indipendenza.

      Ed è ai giovani che insieme a Voi miei vecchi commilitoni – che io dedico questo libro mio: – è ai giovani che, anche in nome vostro, ricordo tutta quell'epoca che parrà leggenda, quando il tempo renderà la tarda ma dovuta giustizia agli uomini ed agli eventi storici.

      Ed è ai giovani che hanno l'anima piena di speranze e d'amore, e sentono che la vita sarebbe sterile senza la luce d'un ideale, che io mando il mio saluto augurale.

      Su, su, giovani d'Italia! – Come voi, rosei e frementi nei loro vent'anni, eran coloro che dal 48 al 70 combatterono per redimere l'Italia – eran come voi animosi e gagliardi gli studenti che a Curtatone e Montanara, come a Roma, tennero alto agli albori del nostro risorgimento, il genio e il valore italiano; – come voi erano entusiasti e nobilmente ribelli i Mille compagni di Garibaldi, che salpando da Quarto compirono il più grande fatto storico dell'epoca moderna; – e giovani come voi erano i caduti sui campi di battaglia per la causa santissima da Custoza a Milazzo – da S. Martino a Calatafimi – da Pastrengo a Bezzecca – da Volturno a Castelfidardo e Mentana; e le zolle d'Italia, ricoprono ovunque pietose le ossa generose di quella balda e fiera gioventù, che tutto abbandonando affrontava la morte al grido di "Viva Italia!.."

      Su, su, giovani! sulle mura d'ogni vostro paese, nei marmi votivi, sono scolpiti i nomi dei vostri cari – e quei nomi sono solcati dal sangue dei morti e dalle lagrime dei superstiti – sangue e lagrime che valsero a darvi una patria libera e indipendente!

      Innanzi a tali ricordi l'irrisione diventa bestemmia!.. – Giovani d'Italia venite con me a salutare i soldati del patrio risorgimento!

A. Elia.

      CAPITOLO I

      Garibaldi in America

      Nato in Ancona il 4 settembre del 1829 e figlio d'un marinaro, Elia volle fin dalla tenera età di nove anni intraprendere esso pure la carriera del mare incominciando ad esercitarla da mozzo e percorrendola tutta, fino a diventare Capitano di lungo corso.

      Nei suoi viaggi più volte gli era occorso di entrare in relazione con patrioti italiani; nei loro discorsi aleggiava già la fulgida figura di Giuseppe Garibaldi. Si sentivano entusiasmati dal racconto delle eroiche azioni da lui compiute nell'America del Sud, ne apprendevano i particolari con avidità e ne facevano prezioso tesoro. Era tutta un'epopea che vedevano svolgersi intorno all'eroe, e loro sembravano omeriche gesta quelle compiute in difesa della piccola repubblica dell'Uraguay invasa dalle truppe del terribile Rosas, e fra le altre, la campagna del Paranà combattuta da Garibaldi con tre piccoli legni, male armati, contro tutta la flotta Argentina comandata dall'Ammiraglio Brown; e particolarmente il combattimento di Nuova Cava decantato quale uno dei più brillanti fatti navali. La gloriosa giornata di Sant'Antonio al Salto fu poi quella che illustrò il nome italiano e rese celebre quello di Garibaldi; combattimento di leoni che il Generale stesso descrisse così:

      "Nella mattina del 18 febbraio 1846 dalle ore 8 alle 9 sortii dell'accampamento del Salto alla testa di centonovanta legionari italiani divisi in quattro piccole compagnie e circa duecento cavalieri comandati dal Colonnello Baez che da pochi giorni si era a noi riunito.

      "Costeggiando la sinistra dell'Uraguay un pò prima delle 12 si arrivò alle alture del Tapevi, fiancheggiato sempre dal nemico che fu tenuto in soggezione dalle nostre catene di Cacciatori.

      "La fanteria prese posizione sotto tettoie di paglia, che altro vantaggio non ci offrivano fuorchè di ripararci dai cocenti raggi del sole; la cavalleria si spinse fino al Tapevi in esplorazione. Una mezz'ora passò senza nessuna dimostrazione ostile per parte del nemico; ma questo da tempo covava un inganno e ci aveva tratti nell'agguato, occultando accuratamente le sue forze nei boschi del Tapevi, per trarci in aperta campagna, cosa che non gli riuscì, causa l'azione della nostra batteria. La nostra cavalleria, attaccata da forze molto superiori, fu travolta e messa in fuga, meno pochi che ci raggiunsero. Io arringai con brevi parole i miei: – "I nemici sono molti, ma per noi sono ancora pochi – non è vero? Italiani! questo sarà un giorno di gloria pel nostro paese; non fate fuoco se non a bruciapelo.

      "Grandi masse di cavalleria si avanzano su di noi, e per poco ci lusingammo di avere a fare con la sola cavalleria; ma fummo ben presto disingannati nel vedere scendere dalla groppa dei cavalli i fanti, ed ordinarsi in numero di oltre trecento: mille e più erano i cavalieri, tutti sotto il comando del generale Servando Gomez. Le nostre piccole compagnie furono ordinate in battaglia sotto le tettoie per trarre profitto di una scarica generale e caricar quindi alla baionetta; la cavalleria, ridotta in pochi, si tenne pronta ad agire ove più occorreva. La fanteria nemica ci assaliva di fronte; la cavalleria ci prendeva ai fianchi ed alle spalle: ma quando la fanteria fu a trenta passi da noi, l'accogliemmo con una scarica così concorde ed aggiustata, che s'arrestò di botto: e poichè anche il suo comandante era caduto da cavallo lo scompiglio del nemico crebbe a tal segno che noi pensammo di trarne profitto immediatamente. E ben n'era tempo, perchè anche la cavalleria ci era sopra e pochi istanti di titubanza ci potevano riuscir fatali. Con l'esempio e con la voce, ci scagliammo all'attacco della fanteria impegnando una lotta corpo a corpo che terminò colla quasi distruzione del nemico. Anche la nostra cavalleria ci giovò in quel frangente, divergendo da noi parte delle truppe nemiche e caricando forze dieci volte superiori, quando già stavano per piombare su di noi.

      "Distrutta la fanteria restammo padroni del campo; il nemico si ritirò a rispettosa distanza atterrito dalla nostra difesa. Non abbandonò però il pensiero di considerarci come cosa sua, e dispose tutta la sua cavalleria – metà della quale era armata di carabine – all'intorno


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