Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio

Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - Giovanni Boccaccio


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come talento», cioè volontá, «Avesse di veder s’altri era meco; Ma, poi che’l sospicciar fu tutto spento», cioè poi che vide che io era solo. «Piangendo disse: – Se per questo cieco Carcere», dello ’nferno, il quale meritamente chiama «carcere», percioché alcuno che v’entri mai uscir non ne puote; e chiamal «cieco», non perché cieco sia, percioché il luogo non ha attitudine niuna di poter vedere né d’esser cieco, ma percioché ha a far cieco chi v’entra, in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder lume; «vai per altezza d’ingegno», avendo per quella saputo trovar via e modo, per lo quale, senza ricevere offesa o doverci rimanere, tu ci vai; «Mio figlio ov’è? e perché non è el teco?» – quasi voglia dire: conciosiacosaché egli sia cosí di maraviglioso ingegno dotato, come siè tu. «Ed io a lui: – Da me stesso non vegno»; cioè per l’altezza d’ingegno che in me sia; «Colui che attende lá», e mostrò Virgilio, «per qui mi mena», cioè per questo luogo, «Forse cui Guido vostro», figliuolo, «ebbe a disdegno». —

      «Le sue parole» (cioè: se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio figlio teco?) «e ’l modo della pena», cioè vederlo dannato tra gli epicurei, «M’avevan di costui», che mi parlava, «giá detto il nome», cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: «Però fu la risposta», mia a lui, «cosi piena», senza mostrare in alcuna cosa di non intenderlo.

      È qui adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore, fu un cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti, leggiadro e ricco cavaliere, e seguí l’opinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti carnali; e per questo, sí come eretico, è dannato. E fu questo cavaliere padre di Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun nostro cittadino; e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima: ma, percioché la filosofia gli pareva, sí come ella è, da molto piú che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. E percioché messer Cavalcante conosceva lo ’ngegno del figliuolo, e la singulare usanza la quale con l’autore avea, riconosciuto prestamente l’autore, senza alcuna premessione d’altre parole, nella prima giunta gli fece la domanda che di sopra si disse.

      Poi séguita l’autore e dice che, attristatosi messer Cavalcante per la risposta udita, «Di subito drizzato, gridò: – Come Dicesti, ’egli ebbe’?», il che si suol dire delle persone passate di questa vita, e però segue: «non viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi il dolce lome?» – del sole; percioché gli occhi de’ morti non sono quanto i corporali feriti, cioè illuminati da alcun lume.

      «Quando s’accorse», aspettando, «d’alcuna dimora Ch’io faceva dinanzi alla risposta, cioè non rispondea cosí subitamente, «Supin ricadde»; segno di pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere essergli venuta estimando che ’l figliuolo fosse morto, poiché l’autore non gli rispondea cosí tosto; percioché gli uomini sogliono soprastare alla risposta, quando la conoscono dovere esser tale che ella non debba piacere a colui che ha fatta la domanda: «e piú non parve fuora». Puossi nelle predette cose comprendere quanto sia l’amor de’ padri ne’ figliuoli, quando veggiamo che in tanta afflizione, in quanta i dannati sono, essi non gli dimenticano, e accumulano la pena loro quando di loro odono o suspicano alcuna cosa avversa. «Ma quell’altro magnanimo». Qui comincia la quinta particella della terza del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha mostrato come quello spirito, il quale s’era in ginocchie levato, era nella sepoltura ricaduto, ne dice come messer Farinata, continuando le sue parole, gli annunzia alcuna cosa di sua vita futura. Dice adunque: «Ma quell’altro magnanimo», cioè messer Farinata, «a cui posta», cioè a cui richiesta, «Restato m’era», in quel luogo, «non mutò aspetto», per cosa che detta fosse, «Né mosse collo», volgendosi in giú alle parole di messer Cavalcante, «né piegò sua costa», cioè suo lato.

      – «E se, – continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore; – «Egli han quell’arte», – del tornare donde cacciati sono, «disse, – male appresa», in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú che questo letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io giaccio.

      «Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui regge».

      A dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra. E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura non avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi lunari, ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione del corpo della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol si dilunga, piú veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso e bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo, in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che entra sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia, come dinanzi ho detto, a divenire ognora piú luminosa, infino alla quintadecima; e brievemente in trecentocinquantaquattro di ella si raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, per che possiam dire che in quattro anni, pochi di piú, ella si raccenda cinquanta volte.

      E però vuol qui, vaticinando, dire messer Farinata: egli non saranno quattro anni, «Che tu saprai», per esperienza, «quanto quell’arte», del tornare chi è cacciato, «pesa», cioè è grave; volendo per queste parole annunziargli che, avanti che quattro anni fossero, esso sarebbe cacciato di Firenze: il che avvenne avanti che fossero due, o poco piú.

      «E se tu mai nel dolce mondo», cioè in questo, il quale, quantunque pieno d’amaritudine sia, è «dolce», cioè dilettevole, a rispetto dello ’nferno; «regge», cioè torni, «Dimmi: perché quel popolo», cioè i cittadini di Firenze, «è si empio», cioè crudele, «Incontr’ a’ miei», cioè agli Uberti, «in ciascuna sua legge»? – delle quali, poiché cacciati furono, mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio si concedesse a’ cacciati di Firenze (se alcuna se ne fece mai), che da quel cotal beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente tutti.

      «Ond’io a lui», risponde l’autore e dice: – «Lo strazio e ’l crudo scempio, Che fece l’Arbia colorata in rosso, Tali orazion», cioè composizioni contro alla vostra famiglia, «fa far nel nostro tempio», cioè nel nostro senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni e gli ordini e le leggi: il quale chiama «tempio», si come facevano i romani, li quali chiamavano talvolta «tempio» il luogo dove le loro diliberazioni facevano.

      E accioché pienamente s’abbia lo ’ntelletto della risposta che l’autore fa, è da sapere che, avendo il comun di Firenze guerra col comun di Siena, si fece per opera di messer Farinata, il quale allora era uscito di Firenze, che il re Manfredi mandò in aiuto del comun di Siena il conte Giordano con ottocento tedeschi, li quali avendo, tenne messer Farinata segreto trattato con piú cittadini ghibellini e altri, co’ quali compose quello che poi seguí, come si dirà appresso. Poi con astuzia mandati frati minori, con falsa informazione data loro, agli anziani di Firenze, e loro per parte di coloro, che luogo di comun teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di Siena, se ad oste v’andassero; trassero i fiorentini con ogni loro sforzo fuori della cittá, sotto titolo di andare a fornire Monte Alcino, e pervennero infino a Monte Aperti in Val d’Arbia: dove, contro all’opinion di tutti, usciti loro allo ’ncontro i sanesi co’ tedeschi del re Manfredi, e molti dell’oste de’ fiorentini, secondo che con messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’ fiorentini,


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