Giuramento Fraterno . Морган Райс
poi una testata, mettendolo al tappeto. Atme fece roteare il suo mazzafrusto e colpì due soldati con un unico giro.
“Dario!” gridò una voce.
Gwen guardò oltre e vide Sandara accanto a lei che indicava verso il campo di battaglia.
“Mio fratello!” gridò ancora.
Gwen scorse Dario a terra, sdraiato sulla schiena e circondato dai soldati dell’Impero che si stavano stringendo attorno a lui. Il cuore le fece un balzo di apprensione, ma vide con grossa soddisfazione come Kendrick si fece avanti tenendo lo scudo e salvando Dario da un colpo d’ascia che altrimenti l’avrebbe colpito al volto.
Sandara gridò e Gwen poté vedere il suo sollievo, capendo quanto amasse suo fratello.
Gwendolyn prese un arco da uno dei soldati che stavano di guardia accanto a lei. Mise una freccia in posizione, lo tese e prese la mira.
“ARCIERI!” gridò.
Tutt’attorno a lei una decina di arcieri prese la mira tendendo gli archi e aspettando un suo commando.
“FUOCO!”
Gwen scoccò una freccia in alto nel cielo, al di sopra dei suoi uomini e insieme a lei tirarono la sua decina di arcieri.
La raffica piombò nel fitto dei restanti soldati dell’Impero e le grida risuonarono mentre una decina di soldati cadevano in ginocchio.
“FUOCO!” gridò di nuovo.
Seguì un’altra raffica, poi un’altra ancora.
Kendrick e i suoi uomini entrarono nella mischia uccidendo tutti gli uomini che erano caduti in ginocchio colpiti dalle frecce.
I soldati dell’Impero furono costretti a smettere di attaccare i paesani e a fare dietrofront con il loro esercito per affrontare gli uomini di Kendrick.
Questo diede un’opportunità agli uomini del villaggio. Levarono un forte grido e attaccarono, pugnalando alla schiena i soldati dell’Impero che ora venivano macellati da ogni parte.
I nemici, schiacciati tra due forze ostili, con i numeri che calavano rapidamente, alla fine iniziarono a rendersi conto di essere in svantaggio. I loro ranghi di centinaia si ridussero presto a decine e coloro che rimanevano si voltarono cercando di fuggire a piedi, dato che le loro zerte erano state uccise o catturate.
Ma non riuscirono a percorrere molta strada prima di essere raggiunti e uccisi.
Si levò un alto grido di trionfo da entrambe le parti, abitanti del villaggio e uomini di Gwendolyn. Si unirono tutti insieme, esultando e abbracciandosi come fratelli. Gwen corse giù dalla collina e si unì a loro, con Krohn alle calcagna, lanciandosi nel fitto del gruppo, circondata da uomini, l’odore del sudore e della paura ancora forte nell’aria, il sangue che scorreva fresco sul suolo desertico. Qui, nonostante tutto ciò che era accaduto nell’Anello, Gwen provò un senso di trionfo. Era stata una vittoria gloriosa lì nel deserto, gli abitanti del villaggio e gli esiliati dell’Anello uniti contro il nemico.
I paesani avevano perso molti buoni uomini e pure Gwen ne aveva persi alcuni dei suoi. Ma Dario almeno era vivo, in piedi sebbene barcollante e lei era felice di constatarlo.
Gwen sapeva che l’Impero aveva milioni di altri uomini. Sapeva che sarebbe giunto un giorno per la resa dei conti.
Ma quel giorno non era oggi. Quel giorno non aveva preso la decisione più saggia, ma quella più coraggiosa. Quella giusta. Sentiva che era una decisione che suo padre avrebbe preso. Aveva scelto la strada più difficile. La strada di ciò che era giusto. La strada della giustizia. La strada del valore. E noncurante di ciò che sarebbe accaduto in futuro, quel giorno aveva vissuto.
Aveva vissuto sul serio.
CAPITOLO TRE
Volusia si trovava sul balcone di pietra e guardava verso il basso, verso il cortile di ciottoli di Maltolis che si dispiegava sotto di lei e là vide il corpo disteso del principe, immobile, gli arti aperti in una posizione grottesca. Sembrava così distante da lassù, così minuscolo, così debole. Volusia si meravigliò di come, solo pochi istanti prima, lui fosse uno dei più potenti sovrani dell’Impero. Era sorprendente quanto la vita fosse fragile, che genere di illusione fosse il potere e soprattutto di come lei, con il suo infinito potere, ora una vera dea, detenesse il potere di vita o di morte su chiunque. Adesso nessuno, neppure un grande principe, poteva fermarla.
Mentre stava lì a guardare, si levarono le grida, in tutta la città, delle migliaia di persone, i pazzi cittadini di Maltolis, che si lamentavano: il loro frastuono riempiva il cortile e si sollevava come fossero uno sciame di locuste. Si agitavano e gridavano, sbattevano la testa contro le pareti di pietra. Si gettavano al suolo come bambini arrabbiati e si strappavano i capelli. A vedere il loro comportamento si sarebbe potuto pensare che Maltolis fosse stato un sovrano benevolo.
“IL NOSTRO PRINCIPE!” gridò uno di loro, un urlo ripetuto da molti altri mentre accorrevano e si buttavano sul corpo del principe pazzo singhiozzando e dimenandosi stringendolo a loro.
“IL NOSTRO AMATO PADRE!”
Improvvisamente le campane risuonarono nella città, una lunga successione di rintocchi che si riecheggiavano. Volusia udì della confusione e sollevò gli occhi vedendo centinaia di soldati di Maltolis marciare di fretta attraverso i cancelli della città, entrare nel cortile in fila per due mentre la grata si sollevava per farli passare. Erano tutti diretti verso il castello di Maltolis.
Volusia capì di aver messo in moto un evento che avrebbe cambiato quella città per sempre.
Si udì un improvviso e insistente battito alla spessa porta di quercia della camera, che le fece fare un balzo. Erano colpi incessanti, il rumore di decine di soldati, clangore di armature, un ariete che veniva picchiato contro la porta della stanza del principe. Volusia ovviamente l’aveva sbarrata e la porta, spessa una trentina di centimetri, era intesa per resistere a un assalto. Tuttavia i cardini cedettero e le grida degli uomini giunsero da fuori: a ogni colpo si piegava sempre più.
Slam, slam, slam.
La camera di pietra tremò e l’antico candeliere di metallo che era appeso in alto a una trave di legno oscillò prima di cadere con uno schianto al suolo.
Volusia rimase a guardare tutto con calma, aspettandosi ogni cosa. Sapeva ovviamente che erano lì per lei. Volevano vendetta e non l’avrebbero mai lasciata fuggire.
“Aprite la porta!” gridò uno dei generali del principe.
Riconobbe la voce: il capo delle forze di Maltolis, un uomo serio che aveva incontrato brevemente. Aveva una voce bassa e roca; era un uomo inetto, ma un soldato professionista con duecentomila uomini a sua disposizione.
Eppure Volusia rimaneva lì calma di fronte alla porta, per nulla scossa, guardando pazientemente e aspettando che la abbattessero. Avrebbe naturalmente potuto aprirla per loro, ma non gli avrebbe dato questa soddisfazione.
Alla fine si udì un tremendo schianto e la porta di legno cedette staccandosi dai cardini e decine di soldati, con le armature che sferragliavano, entrarono di corsa nella stanza. Il comandante di Maltolis, con addosso la sua armatura decorata e con in mano uno scettro d’oro che gli conferiva il titolo di comandante dell’esercito di Maltolis, era a capo delle truppe.
Rallentarono quando la videro lì in piedi, da sola, per niente desiderosa di fuggire. Il comandante, con volto profondamente corrugato, si diresse dritto verso Volusia e si fermò bruscamente a pochi passi da lei.
Le lanciò un’occhiataccia colma di odio e dietro di lui i suoi uomini si fermarono, ben disciplinati, in attesa di un suo comando.
Volusia stava lì tranquilla, guardandolo con un sorrisino, e si rese conto che il suo atteggiamento doveva averli confusi, dato che il comandante sembrava sconvolto.
“Cos’hai fatto, donna?” le chiese stringendo la sua spada. “Sei venuta nella nostra città da ospite e hai ucciso il nostro sovrano. Il prescelto. Colui che non poteva essere ucciso.”
Volusia gli sorrise e rispose con calma: “Vi sbagliate di grosso, generale,” disse. “Sono io quella che non