Una Ragione per Uccidere . Блейк Пирс

Una Ragione per Uccidere  - Блейк Пирс


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e rigidamente che la sua sedia scivolò all’indietro e andò a sbattere contro la parete.

      “Non pensare che questo cambi qualcosa,” disse. “Tu e io non siamo affatto simili.”

      Anche se il suo minaccioso linguaggio corporeo indicava rabbia a distanza, i suoi occhi dicevano qualcosa di diverso. Avery era certa che fosse sull’orlo di un esaurimento. Qualcosa che il capitano aveva detto lo aveva colpito, proprio come aveva colpito lei. Entrano entrambi danneggiati, emarginati. Soli.

      “Senti,” riprese, “pensavo solo.”

      Dylan si voltò e aprì la porta. Il suo profilo mentre usciva confermò i timori di Avery: c’erano lacrime nei suoi occhi arrossati.

      “Maledizione,” sussurrò lei.

      La notte era il momento peggiore per Avery. Non aveva più un solido gruppo di amici, nessun hobby vero e proprio a esclusione del lavoro, ed era così stanca che non riusciva a pensare di darsi ancora da fare. Da sola al largo tavolo giallo, chinò la testa e tremò al pensiero di cosa sarebbe successo.

      Il percorso per uscire dall’ufficio fu come ogni altro giorno, solo che nell’aria c’era un’eccitazione, e molti poliziotti erano incoraggiati dalla sua storia in prima pagina.

      “Ehi, Black,” qualcuno la chiamò e indicò la sua foto in copertina. “Bella faccia.”

      Un altro poliziotto picchiettò sull’immagine di Howard Randall.

      “Questa storia dice che eravate molto intimi, Black. Sei una gerontofila? Sai cosa significa? Significa che ti piace farti i vecchi.”

      “Voi ragazzi siete proprio spassosi.” Sorrise e sparò dalle dita come con una pistola.

      “Fottiti, Black.”

      ***

      Nel garage era parcheggiata una BMW bianca, comprata cinque anni prima, sporca e logora. Avery l’aveva comprata all’apice del suo successo come avvocato difensore.

      Che cosa stavo pensando? si chiese. Perché mai comprare un’auto bianca?

      Il successo, si ricordò. La BMW bianca era stata splendida e vistosa, e lei aveva voluto far sapere a tutti che era la migliore. Ormai era un ricordo della sua vita fallita.

      L’appartamento di Avery si trovava su Bolton Street, a South Boston. Aveva un piccolo appartamento con due camere da letto al livello più alto di un palazzo a due piani. Era un passo indietro rispetto all’attico nel grattacielo dove viveva prima, ma era spazioso e ordinato, con un bel terrazzo dove poteva sedersi a rilassarsi dopo una dura giornata di lavoro.

      Il soggiorno era un open space dalla folta moquette marrone. La cucina era sulla destra rispetto alla porta d’ingresso, e separata dal resto della stanza da due larghe isole. Non c’erano piante o animali. L’esposizione a nord assicurava che l’appartamento fosse per lo più al buio. Avery gettò le chiavi sul tavolo e si liberò delle altre cose: pistola, fondina, walkie talkie, distintivo, cintura, telefono e portafoglio. Mentre si dirigeva verso la doccia si spogliò.

      Dopo essere rimasta a lungo sotto l’acqua per elaborare gli eventi della giornata, indossò l’accappatoio, prese una birra dal frigo, poi il telefono e andò in terrazzo.

      Sul cellullare c’erano quasi venti chiamate perse, oltre a dieci nuovi messaggi. La maggior parte era di Connelly e O’Malley. Si sentivano molte urla.

      A volte Avery era tanto concentrata e assorta da rifiutarsi di rispondere a chiunque non fosse essenziale al suo compito, specialmente quando tutti i pezzi del puzzle non erano ancora andati al loro posto; quello era uno di quei giorni.

      Controllò gli ultimi numeri chiamati, e tutte le persone che avevano chiamato lei nel mese precedente. Nessuno era di sua figlia, o del suo ex marito.

      All’improvviso sentì la mancanza di entrambi.

      Pigiò alcuni pulsanti.

      Il telefono squillò.

      Un messaggio rispose: “Ciao, sono Rose. Non posso rispondere alla tua chiamata, ma se mi lasci un breve messaggio, il tuo nome e il tuo numero, ti risponderò il prima possibile. Grazie mille.” Bip.

      Avery riappese.

      Intrattenne brevemente con l’idea di chiamare Jack, il suo ex. Era un brav’uomo, il fidanzato dai tempo del college con un cuore d’oro, una persona davvero per bene. Quando aveva diciotto anni avevano avuto una torrida storia d’amore, e lei, con il suo ego mostruoso dopo aver ottenuto il lavoro dei suoi sogni, aveva rovinato tutto.

      Per anni aveva incolpato altre persone per la loro separazione e per lo screzio con la figlia: Howard Randall per le sue bugie, il suo ex capo, i soldi, il potere, e tutte le persone che aveva dovuto intrattenere e abbindolare per rimanere sempre un passo avanti rispetto alla verità; poco a poco, i suoi clienti erano diventati meno affidabili, e lei aveva voluto ugualmente continuare, ignorare la verità, piegare la giustizia in un modo o nell’altro, solo per vincere. Solo un altro caso, si era spesso detta. La prossima volta, difenderò qualcuno di veramente innocente e pareggerò i conti.

      Howard Randall era stato quel caso.

      Sono innocente, aveva pianto al loro primo incontro. Gli studenti sono la mia vita. Perché dovrei far loro del male?

      Avery gli aveva creduto e per la prima volta dopo molto tempo, aveva iniziato a credere in se stessa. Randall era un professore di psicologia di fama mondiale che lavorava ad Harvard, sulla sessantina, senza alcun movente o passato di convinzioni personali squilibrate. Per di più sembrava debole e spezzato, e Avery aveva sempre voluto difendere i deboli.

      Quando lo aveva fatto scarcerare, era stato il culmine della sua carriera, il suo risultato migliore, o per lo meno, lo era stato fino a quando non aveva ucciso di nuovo e appositamente per dimostrare che era un’imbrogliona.

      Tutto ciò che Avery aveva voluto sapere era stato: perché?

      Perché lo hai fatto? gli aveva chiesto una volta nella sua cella. Perché hai mentito e mi hai incastrato, solo per andare in prigione per il resto della tua vita?

      Perché sapevo che potevi essere salvata, aveva risposto Howard.

      Salvata, pensò Avery.

      È questa la salvezza? si chiese e studiò ciò che la circondava. Qui? Adesso? Senza amici, senza famiglia? Con una birra in mano e una nuova vita passata a dare la caccia agli assassini per fare ammenda per il suo passato? Prese un sorso e scosse la testa. No, questa non è la salvezza. Almeno, non ancora.

      I suoi pensieri si rivolsero al killer.

      Un’immagine aveva iniziato a prendere forma nella sua mente: tranquillo, solitario, con un disperato bisogno di attenzione, uno specialista in erbe e cadaveri. Escluse un alcolizzato o un drogato. Era troppo attento. Il minivan faceva pensare a una famiglia, ma le sue azioni indicavano che una famiglia era ciò che voleva, non ciò che aveva.

      Con la mente affollata di pensieri e immagini, Avery mandò giù altre due birre prima di cadere addormentata all’improvviso nella sua comoda poltrona da esterno.

      CAPITOLO NOVE

      Nel suo sogno, Avery era di nuovo insieme alla sua famiglia.

      Il suo ex era un uomo atletico dai corti capelli castani e affascinanti occhi verdi. Appassionati scalatori, stavano facendo un’escursione con la figlia: Rose; aveva solo sedici anni e anche se era al primo anno del liceo aveva già ricevuto un’ammissione anticipata al Bradeis College, ma nel sogno aveva sei anni. Tutti cantavano e camminavano lungo un sentiero circondato da fitti alberi. Degli uccelli scuri volteggiarono e gridarono, prima che gli alberi si trasformassero in un mostro d’ombra e una mano simile a una lama pugnalasse Rose al petto.

      “No!” urlò Avery.

      Un’altra mano pugnalò Jack e sia lui che la figlia vennero portati via.

      “No! No! No!” gridò Avery.

      Il


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