Il fu Mattia Pascal. Луиджи Пиранделло
pover’uomo era stato un martire della moglie.
E perchè dunque, ora, non lo sposava lei? Oh bella, perchè era vedovo! era appartenuto a un’altra donna, alla quale forse, qualche volta, avrebbe potuto pensare. E poi perchè… via! si vedeva da cento miglia lontano, non ostante la timidezza: era innamorato, era innamorato… s’intende di chi, quel povero signor Pomino!
Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le sarebbe parso un vero e proprio sacrilegio. Ma non credeva forse neppure, poverina, che zia Scolastica dicesse sul serio; e rideva in quel suo modo particolare alle sfuriate della cognata, alle esclamazioni del povero signor Pomino, che si trovava lì presente a quelle discussioni, e al quale la zitellona scaraventava le lodi più sperticate.
M’immagino quante volte egli avrà esclamato, dimenandosi su la seggiola, come su un arnese di tortura:
– Oh santo nome di Dio benedetto!
Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli mansueti, credo che s’incipriasse e avesse anche la debolezza di passarsi un po’ di rossetto, appena appena, un velo, su le guance: certo si compiaceva d’aver conservato fino alla sua età i capelli, che si pettinava con grandissima cura, a farfalla, e si rassettava continuamente con le mani.
Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se mia madre, non certo per sè ma in considerazione dell’avvenire dei suoi figliuoli, avesse seguìto il consiglio di zia Scolastica e sposato il signor Pomino. È fuor di dubbio però che peggio di come andarono, affidati al Malagna (la talpa!), non sarebbero potuti andare.
Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli averi nostri, è vero, era andata in fumo; ma avremmo potuto almeno salvare dalle grinfe di quel ladro il resto che, se non più agiatamente, ci avrebbe certo permesso di vivere senza bisogni. Fummo due scioperati; non ci volemmo dar pensiero di nulla, seguitando, da grandi, a vivere come nostra madre, da piccoli, ci aveva abituati.
Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal Pinzone fu il nostro ajo e precettore. Il suo vero nome era Francesco, o Giovanni, Del Cinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone, ed egli ci s’era già tanto abituato che si chiamava Pinzone da sè.
Era d’una magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di statura; e più alto, Dio mio, sarebbe stato, se il busto, tutt’a un tratto quasi stanco di tallir gracile in su, non gli si fosse curvato sotto la nuca, in una discreta gobbetta gobbetta, da cui il collo pareva uscisse penosamente, come quel d’un pollo spennato, con un grosso nottolino protuberante, che gli andava su e giù. Pinzone si sforzava spesso di tener tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perchè questo risolino, non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più acuto e beffardo che mai.
Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa, che nè la mamma nè noi vedevamo. Non parlava, forse perchè non stimava dover suo parlare, o perchè ― com’io ritengo più probabile ― ne godeva in segreto, velenosamente.
Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciava fare; ma poi, come se volesse stare in pace con la propria coscienza, quando meno ce lo saremmo aspettato, ci tradiva.
Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci in chiesa; era prossima la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo la confessione, una breve visitina alla moglie inferma del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che divertimento! Ma, appena in istrada, noi due proponemmo a Pinzone una scappatella: gli avremmo pagato un buon litro di vino, purchè lui, invece che in chiesa e dal Malagna, ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi. Pinzone accettò felicissimo, stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve; andammo nel podere; fece il matto con noi per circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci su gli alberi, arrampicandovisi egli stesso. Ma alla sera, di ritorno a casa, appena la mamma gli domandò se avevamo fatto la nostra confessione e la visita al Malagna:
– Ecco, le dirò… ― rispose, con la faccia più tosta del mondo; e le narrò per filo e per segno quanto avevamo fatto.
Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi tradimenti noi ci prendevamo. Eppure ricordo che non eran da burla. Una sera, per esempio, io e Berto, sapendo che egli soleva dormire, seduto su la cassapanca, nella saletta d’ingresso, in attesa della cena, saltammo furtivamente dal letto, in cui ci avevano messo per castigo prima dell’ora solita, riuscimmo a scovare una canna di stagno, da serviziale, lunga due palmi, la riempimmo d’acqua saponata nella vaschetta del bucato; e, così armati, andammo cautamente a lui, gli accostammo la canna alle nari ― e zifff! ― Lo vedemmo balzare fin sotto al soffitto.
Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar nello studio, non sarà difficile immaginare. La colpa però non era tutta di Pinzone; chè egli anzi, pur di farci imparare qualche cosa, non badava a metodo nè a disciplina, e ricorreva a mille espedienti per fermare in qualche modo la nostra attenzione. Spesso con me, ch’ero di natura molto impressionabile, ci riusciva. Ma egli aveva una erudizione tutta sua particolare, curiosa e bislacca. Era, per esempio, dottissimo in bisticci: conosceva la poesia fidenziana e la maccaronica, la burchiellesca e la leporeambica, e citava allitterazioni e annominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di tutti i poeti perdigiorni, e non poche rime balzane componeva egli stesso.
Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina dirimpetto non so più quante volte questa sua Eco:
In cuor di donna quanto dura amore?
― (Ore).
Ed ella non mi amò quant’io l’amai?
― (Mai).
Or chi sei tu che sì ti lagni meco?
― (Eco).
E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti del Moneti e gli altri, pure in sonetti, d’un altro scioperatissimo che aveva avuto il coraggio di nascondersi sotto il nome di Caton l’Uticense. Li aveva trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchio cartolare dalle pagine ingiallite.
– Udite, udite quest’altro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite:
A un tempo stesso io mi son una, e due,
E fo due ciò ch’era uno primamente.
Una mi adopra con le cinque sue
Contra infiniti, che in capo ha la gente.
Tutta son bocca dalla cinta in sue,
E più mordo sdentata che con dente.
Ho due bellichi a contrapposti siti,
Gli occhi ho ne’ piedi, e spesso a gli occhi i diti.
Mi pare di vederlo ancora, nell’atto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino.
Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che Pinzone c’insegnava, e credeva fors’anche, nel sentirci recitare gli enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne avessimo già d’avanzo. Non così zia Scolastica, la quale ― non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino ― s’era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, s’imbattè in me per una delle stanze abbandonate; m’afferrò per il mento, me lo strinse