La caccia di Zero. Джек Марс
il volante dell’auto sportiva e gli fece un cenno di saluto. “Grazie per tutto l’aiuto.”
“Non lo sto facendo per te,” gli ricordò l’altro impassibile. “Lo faccio per quelle ragazzine. E Zero? Se mi scoprono, se la mia copertura venisse compromessa, o se capiscono che cosa sto facendo con te, mi tiro fuori. Hai capito? Non mi posso permettere di finire sulla lista nera dell’agenzia.”
La reazione istintiva di Reid fu uno scatto d’ira—qui si tratta delle mie bambine e lui ha paura di finire sulla lista nera?—ma lo soffocò in fretta. Watson era un alleato inaspettato in quella situazione, e stava rischiando grosso per aiutarlo. O meglio, non per aiutare lui ma due bambine che aveva incontrato solo brevemente.
Annuì serio. “Lo capisco.” Rivolto al meccanico solenne e di poche parole aggiunse: “Grazie, Mitch. Apprezzo il suo aiuto.”
L’uomo barbuto grugnì in risposta e premette un pulsante per aprire il portello del garage mentre Reid metteva in moto la Trans Am. Gli interni dell’auto erano in pelle nera, puliti e dall’odore gradevole. Il motore faceva le fusa sotto il cofano. Un modello del 1987, lo informò il suo cervello. Un motore V8 da 5.0 litri. Almeno duecentocinquanta cavalli.
Uscì dal Third Street Garage e si diresse verso l’autostrada, con le mani strette attorno al volante. Una ferrea determinazione aveva preso il posto degli orrori che gli avevano riempito la mente fino a poco prima. La polizia aveva creato un numero verde e stava indagando. La CIA era al lavoro per identificare il rapitore. Adesso lui stesso si era messo in moto per ritrovare le ragazze.
Sto arrivando. Papà sta venendo a prendervi.
E a occuparsi di lui.
CAPITOLO CINQUE
“Dovreste mangiare.” L’assassino indicò il cartone di cibo cinese d’asporto sul comodino accanto al letto.
Maya scosse la testa. Ormai il cibo si era raffreddato, e comunque non aveva fame. Era seduta sul materasso con le ginocchia sollevate, la sorella appoggiata a lei con la testa sul suo grembo. Le due ragazzine erano ammanettate insieme, il polso sinistro di Maya a quello destro di Sara. Lei non aveva idea da dove l’assassino avesse preso le manette, ma le aveva avvertite diverse volte che se una di loro avesse tentato di scappare o di far rumore, l’altra ne avrebbe subito le conseguenze.
Rais era seduto su una poltrona accanto alla porta. Erano in una squallida stanza di motel dai tappeti arancioni e le mura gialle. C’era odore di muffa e il bagno puzzava di candeggina. Erano lì da ore; il vecchio orologio appoggiato vicino al letto diceva in numeri rossi a LED che erano le due e mezza del mattino. La televisione era accesa, sintonizzata su un notiziario con il volume basso.
Una station wagon bianca era parcheggiata direttamente davanti alla porta, a un metro di distanza; l’assassino l’aveva rubata nella notte da un rivenditore di macchine usate. Era stata la terza volta che cambiavano auto quel giorno. Prima il pick-up di Thompson poi la berlina blu e ora a quel SUV bianco. Ogni volta che lo facevano, Rais cambiava direzione, prima andando a sud, poi tornando a nord, e infine girando a nord-est verso la costa.
Maya aveva capito che cosa stava facendo: era il gioco del gatto con il topo. Lasciava i veicoli rubati in posti diversi in modo che le autorità non avessero idea di dove stessero andando. La loro stanza di motel era a meno di quindici chilometri da Bayonne, poco distante dal confine con New Jersey e New York. Il motel stesso era un edificio lungo e basso talmente malconcio e disgustoso che passandoci davanti si aveva l’impressione che fosse chiuso da anni.
Nessuna delle due ragazze aveva dormito molto. Sara aveva schiacciato qualche pisolino tra le braccia di Maya, perdendo i sensi per venti o trenta minuti alla volta prima di svegliarsi di colpo con un singhiozzo, sfuggendo ai propri sogni per ricordarsi dove fosse in realtà.
Maya aveva lottato contro la stanchezza, cercando di rimanere vigile il più a lungo possibile. Sapeva che a un certo punto anche Rais avrebbe dovuto dormire, e ciò gli avrebbe lasciato qualche minuto prezioso per provare a scappare. Ma il motel era nel bel mezzo di una zona industriale. Quando si erano fermati si era accorta che non c’erano case vicine e a quell’ora di notte nessun negozio era aperto. Non era neanche sicura di aver visto qualcuno nell’ufficio dell’albergo. Non sarebbero potute andare da nessuna parte. Si sarebbero perse nella notte, rallentate dalle manette.
Alla fine aveva ceduto alla fatica e a malincuore si era addormentata. Dopo meno di un’ora si era svegliata di soprassalto, e poi aveva sobbalzato di nuovo quando aveva visto Rais seduto in poltrona a mezzo metro da lei.
La stava fissando con concentrazione, i suoi occhi sgranati. La fissava e basta.
Le fece accapponare la pelle… fino a quando non passò un intero minuto, e poi un altro. Maya lo fissò a sua volta, lo spavento mescolato alla curiosità. Poi capì.
Dorme con gli occhi aperti.
Non sapeva se trovava più inquietante quello o svegliarsi sotto il suo sguardo attento.
Ma poi Rais batté le palpebre e lei dovette trattenere un ennesimo sussulto, con il cuore che le batteva forte nel petto.
“Nervi facciali danneggiati,” spiegò l’uomo a bassa voce, quasi in un bisbiglio. “Ho sentito che può essere piuttosto destabilizzante.” Indicò il cartone dell’asporto cinese che aveva ordinato in camera ore prima e ripeté. “Dovresti mangiare.”
Lei scosse la testa, stringendosi Sara in grembo.
Alla televisione a basso volume stavano ripetendo le principali notizie della giornata. Un’organizzazione terroristica era stata ritenuta responsabile del rilascio di un ceppo letale del virus del vaiolo in Spagna e altre parti d’Europa. Il loro leader, insieme al virus e vari membri dell’organizzazione, era stato preso e ora era in custodia. Quel pomeriggio gli Stati Uniti avevano rimosso ufficialmente il divieto di viaggio internazionale verso tutti i paesi, a eccezione del Portogallo, la Spagna e la Francia, dove si continuavano a trovare casi isolati del vaiolo mutato. Ma tutti sembravano certi che la World Health Organization avesse la situazione sotto controllo.
Maya aveva sospettato che il padre fosse stato mandato ad aiutare in quel caso. Si chiese se fosse stato lui a catturare il capo dell’organizzazione, e se fosse già tornato nel paese.
Si domandò anche se avesse già trovato il corpo del signor Thompson e se si fosse accorto che erano state rapite. O se chiunque si fosse accorto della loro sparizione.
Rais non si muoveva dalla sua poltrona gialla. Aveva un cellulare appoggiato su un bracciolo. Era un modello vecchio, praticamente preistorico per gli standard attuali, che serviva solo a chiamare e a mandare messaggi. Un cellulare usa e getta, così Maya li aveva sentiti chiamare nelle serie televisive. Non aveva un collegamento a internet né un GPS. Le sue serie le avevano insegnato che ciò significava che poteva essere rintracciato solo con il numero, che quindi bisognava avere.
A quanto pareva l’assassino stava aspettando qualcosa. Una chiamata o un messaggio. Maya voleva disperatamente sapere dove stavano andando, o anche solo se avevano una destinazione. Stava cominciando a pensare che Rais volesse che suo padre li trovasse, li rintracciasse, ma in ogni caso quell’uomo non pareva avere fretta di fare la sua mossa. Qual era il suo gioco? Avrebbe continuato a rubare auto e a cambiare direzione, eludendo le autorità nella speranza che suo padre li trovasse per primi? Avrebbero continuato a muoversi da un posto all’altro fino allo scontro finale?
All’improvviso uno squillo monotono si alzò dal cellulare usa e getta accanto a lui. Sara sobbalzò leggermente tra le sue braccia al suono acuto.
“Pronto.” Rais rispose con tono piatto. “Ano.” Si alzò dalla poltrona per la prima volta in tre ore, passando dall’inglese a una lingua sconosciuta. Maya conosceva solo l’inglese e il francese, e sapeva riconoscere qualche altra lingua sentendo parole e accenti, ma quella le mancava. Era gutturale, ma non del tutto sgradevole.
Russo? pensò. No. Polacco, forse. Non aveva senso tirare a indovinare. Non poteva esserne sicura, e saperlo non l’avrebbe aiutata