Una Ragione per Morire. Блейк Пирс
Immaginando che fosse meglio battere il ferro finché era ancora caldo, si spogliò fino alle mutande e indossò un paio di pantaloni termici. Non era troppo freddo quella mattina, qualche grado sopra lo zero, ma non era abituata a stare fuori nei boschi. Non possedeva niente di mimetico, quindi si decise per un paio di pantaloni verde scuro e un maglione nero. Era consapevole che non fosse l’abbigliamento più sicuro per andare a caccia di cervi, ma per il momento se lo sarebbe fatto bastare.
Si infilò un sottile paio di guanti (dopo aver cercato dentro l’ennesimo scatolone per ritrovarli), si allacciò le scarpe più robuste che aveva e uscì. Salì in auto e guidò per due miglia fino a una strada sterrata che conduceva a una zona del bosco di proprietà dell’uomo da cui aveva acquistato la casa. Le aveva dato il permesso di cacciare nel suo terreno, come clausola aggiuntiva o una specie di bonus per averlo pagato diecimila dollari più del prezzo richiesto.
Trovò un punto a lato della strada che era stato ovviamente usato per anni dai cacciatori come parcheggio o spiazzo per svoltare. Lasciò lì l’auto, con la portiera del lato del guidatore a pochi centimetri dal sentiero. Poi prese il fucile e si addentrò nel bosco.
Si sentiva sciocca, a marciare tra gli alberi. Non cacciava da almeno cinque anni, dal weekend in cui aveva ricevuto il fucile. Non aveva l’attrezzatura, gli stivali giusti, l’odore di cervo da spruzzare sugli alberi, il cappello né il gilè arancione brillante. Ma sapeva anche che era mercoledì mattina e che il bosco era praticamente vuoto. Le sembrava di essere la ragazza timida che giocava a basket da sola e che si allontanava quando quelli bravi arrivavano in palestra.
Camminò per venti minuti fino a un rialzo nel terreno. Si mosse in silenzio, con la stessa cautela sviluppata lavorando come detective della omicidi. Il fucile tra le mani era piacevole, anche se un po’ strano. Era abituata ad armi molto più piccole, la sua Glock in particolare, quindi il fucile le sembrava più potente. Arrivata in cima al rialzo, notò una quercia caduta a una certa distanza. La usò per ripararsi un minimo, sedendosi sul terreno e poi scivolando in avanti con la schiena contro l’albero rovesciato. In quella posizione reclinata, si appoggiò di fianco il fucile e alzò lo sguardo verso le cime degli alberi.
Rimase sdraiata tranquilla, sentendosi più a suo agio con il mondo di quanto non fosse stata sulla sua veranda poco prima. Sorrise immaginando Rose là fuori insieme a lei. La figlia detestava qualsiasi cosa c’entrasse con l’aria aperta e le sarebbe venuto un colpo se avesse saputo che sua madre in quel momento era seduta in mezzo ai boschi con un fucile, per dare la caccia ai cervi. Pensando a Rose, Avery riuscì a schiarirsi la mente e a concentrarsi su ciò che la circondava. E fu a quel punto che gli istinti sviluppati nel corso della sua carriera presero il sopravvento.
Sentiva il fruscio delle foglie per terra insieme a quelle sugli alberi, le ultime che si ostinavano testardamente ad opporsi all’inverno in arrivo. Udì qualcosa che si muoveva in alto a destra sopra di lei, probabilmente uno scoiattolo uscito a controllare il vento. Non appena si fu abituata all’ambiente, chiuse gli occhi e si permise davvero di lasciarsi andare.
Continuava a sentire tutto ma allo stesso tempo percepiva la propria mente che faceva ordine tra i pensieri. Jack e la sua ragazza, entrambi morti. Ramirez, morto e sepolto. Pensò a Howard Randall, caduto nella baia e probabilmente morto anche lui. E alla fine vide Rose… e come il suo lavoro l’avesse costantemente messa in pericolo. Rose non se l’era meritato, non era quello che aveva voluto per lei. Per tutto quel tempo aveva fatto del suo meglio per esserle di supporto, ma aveva raggiunto il suo limite.
Ad essere sincera, Avery era colpita che avesse resistito così a lungo. Specialmente dopo l’ultimo caso, nel corso del quale era stata letteralmente in pericolo di vita. E non era stata la prima volta.
Il rumore di un rametto che si spezzava interruppe i suoi pensieri. Spalancò gli occhi e ancora una volta si trovò a fissare gli alberi ormai quasi senza foglie sopra di sé. Lentamente allungò una mano verso il Remington, mentre dietro di lei qualcosa continuava a fare rumore.
Strinse a sé il fucile e lo preparò lentamente. Si mosse con abilità e grazia, sollevandosi sui gomiti. Espirò e inspirò, accertandosi di non muovere nemmeno una foglia con il respiro. Scrutò con attenzione l’area sotto il piccolo dosso dietro cui era nascosta e notò un cervo ad ovest, a circa settanta iarde di distanza. Era un maschio, con otto corna da quello che riusciva a vedere. Niente di esaltante, ma almeno era qualcosa. Ne vide un altro poco più avanti, ma era in parte coperto da due alberi.
Si sollevò un altro po’, appoggiando il fucile sul lato della quercia caduta. Flesse il dito sul grilletto e strinse la presa sul calcio. Prese la mira e lo trovò un colpo leggermente più difficile del previsto. Quando riuscì a trovare la posizione perfetta attraverso il mirino, sparò.
Il rimbombo del fucile riempì tutta la foresta. Il rinculo fu percettibile ma leggero. Non appena ebbe sparato si rese conto di aver mirato troppo a destra, perché le si era spostato il gomito quando aveva premuto il grilletto.
Non vide mai la fuga del cervo.
Mentre il suono dello sparo le riempiva le orecchie e i boschi, qualcosa dentro di lei sembrò tremare e paralizzarsi. Per un doloroso momento non riuscì a muoversi. E in quell’istante non fu più tra gli alberi, intenta a cacciare con poco successo un cervo. Invece era nel soggiorno di Jack. C’era sangue ovunque. Sia lui che la sua ragazza erano stati uccisi. Lei non era riuscita a impedirlo, e si sentiva come se fosse lei stessa la loro assassina. Rose aveva ragione. Era colpa sua. Avrebbe potuto fermarlo se fosse stata più veloce… se fosse stata più brava.
Il sangue brillava rosso acceso e gli occhi di Jack la fissavano, morti e supplicanti. Ti prego, sembravano dire, ti prego, devi impedirlo. Aiutaci.
Avery lasciò cadere il fucile. Il rumore dell’arma a terra la riportò alla realtà e ancora una volta si ritrovò a piangere apertamente. Le lacrime erano calde e inarrestabili, come lame infuocate sulle sue guance altrimenti gelate.
“È colpa mia,” disse rivolta alla foresta. “È stata colpa mia. Tutto quanto.”
Non solo Jack e la sua ragazza… no. Anche Ramirez. E chiunque altro non fosse riuscita a salvare. Avrebbe dovuto impegnarsi di più, essere più brava.
Ripensò alla foto di Jack e Rose davanti all’albero di Natale e si accartocciò a terra vicino alla quercia caduta, cominciando a tremare.
No, si intimò. Non ora, non qui. Ricomponiti, Avery.
Lottò contro quell’ondata di emozioni e le ricacciò indietro. Non fu troppo difficile. Dopo tutto aveva fatto molta pratica nel corso dell’ultima decina di anni. Si rialzò lentamente in piedi, riprendendo il fucile da terra. Quasi non si guardò nemmeno alle spalle, dove erano stati i due cervi. Non provava niente per il colpo mancato. Non le importava più di nulla.
Ritornò nella direzione da dove era venuta, portando il Remington su una spalla e dieci anni di senso di colpa e fallimento nel cuore.
*
Sulla strada del ritorno, Avery rifletté che era stata una fortuna non aver ucciso il cervo. Non aveva idea di come avrebbe potuto portarlo fuori dal bosco. Trascinandolo all’auto? Legandolo con una corda sul tettuccio della macchina e guidando molto piano verso casa? Sapeva abbastanza di caccia da essere consapevole che era illegale lasciarlo a marcire nel bosco.
In qualsiasi altro momento, avrebbe trovato esilarante l’immagine mentale di un cervo attaccato sopra la sua auto, ma in quel momento era solo un’altra svista. Qualcos’altro su cui non aveva riflettuto abbastanza.
Proprio mentre stava per svoltare sulla sua strada, il trillo del cellulare la riportò con i piedi per terra. Lo afferrò dalla console e lesse un numero che non riconobbe, ma un prefisso che aveva visto per quasi tutta la sua vita. La chiamata arrivava da Boston.
Rispose con una sana dose di scetticismo, avendo imparato, grazie alla sua carriera, che spesso i numeri sconosciuti portavano guai. “Pronto?”
“Pronto, parlo con la signora Black? La signora Avery Black?” domandò una voce maschile.
“Sono