Gloria Primaria. Джек Марс
l'auto si sarebbe raddrizzata, ma poi il lato del guidatore si sollevò da terra.
Don sentì la macchina capovolgersi. Conosceva bene quella sensazione.
Inizialmente era un movimento lento e poi molto, molto veloce. L'auto si capovolse e rotolò su se stessa.
Don fu gettato in avanti e di lato, la sua faccia colpì il vetro tra gli scomparti. Poi finì addosso all'agente dei servizi segreti.
Tutto divenne buio.
Gli sembrò di fluttuare nello spazio.
Poco tempo dopo, aprì gli occhi. L'auto era capovolta. Don era sdraiato sul soffitto. Si portò una mano al viso insanguinato. Sia Montcalvo che l'uomo dei servizi segreti erano a testa in giù, ancora legati ai sedili, con le braccia penzoloni.
Gli occhi di Montcalvo erano chiusi.
Le orecchie di Don fischiavano. Aveva le vertigini.
Si frugò in tasca e prese il cellulare. Il numero di Margaret era il primo in rubrica. Lo trovò e premette il pulsante verde. Il numero squillò e sembrò che qualcuno raccogliesse la chiamata dall'altra parte del telefono.
“Tesoro?”, disse. “Tesoro?”,
Nessuno rispose.
Fuori dai finestrini la gente correva. Riusciva a vedere solo i loro piedi. Una macchina nera passò sulla strada correndo, poi un'altra: erano i membri del corteo presidenziale che si precipitavano verso l'aeroporto.
Don strisciò verso la porta, pensando di aprirla e chiedere aiuto. Ma… accadde qualcosa. Passarono istanti che sembravano interminabili. Aprì gli occhi e si ritrovò di nuovo sdraiato sul soffitto.
Arriverà qualcuno. L'autista deve aver chiamato i soccorsi. Don guardò attraverso il tramezzo e l'autista era appeso a testa in giù, proprio come gli altri uomini che si trovavano con lui nell'abitacolo.
"Qualcun altro oltre a me è cosciente?"
CAPITOLO SETTE
Ore 11:15 fuso orario dell’Atlantico (ore 11:45 fuso orario della Costa Orientale)
Air Force One
Aeroporto internazionale Luis Muñoz Marín
San Juan, Puerto Rico
"Piano, piano", disse Clement Dixon.
Nessuno gli dava ascolto. Lo avevano portato fuori dalla macchina con tutte le precauzioni. Dixon era alto, ma una mano forte lo costringeva a rimanere abbassato fino a farlo quasi accovacciare. Un muro di uomini molto alti in giubbotti balistici lo circondava completamente. Si mossero in gruppo verso l'aereo.
Al di là dei corpi che lo circondavano, riusciva a malapena a vedere l'aereo blu e bianco sull'asfalto, la bandiera americana sulla coda, e la scritta STATI UNITI D'AMERICA lungo la fusoliera.
Dixon riuscì a intravedere l'auto mentre si allontanava, era circondata da veicoli blindati. Vide anche Tracey Reynolds e Margaret Morris seguirlo scortate da due donne in giubbotti balistici. Non erano circondate e non erano costrette a stare chine: non importava al mondo della vita di una giovane assistente e della moglie di un agente dei servizi segreti.
La scala dell'aereo era abbassata. I motori stavano già girando. Faceva caldo sull'asfalto. Dixon poteva sentire il sole picchiare sulla schiena.
"Cosa sta succedendo?" disse.
Quando raggiunsero le scale, si rese conto di essere senza fiato. Sentiva una punta di dolore al petto.
Non ora. Non un attacco di cuore adesso.
Sarebbe stato troppo banale, troppo. Era quello che i suoi figli avrebbero chiamato meme. Un vecchio vive per decenni facendo lavori stressanti, poi sopravvive a una sorta di aggressione violenta, solo per morire di insufficienza cardiaca pochi istanti dopo.
"C'è stato un attacco, signore", disse un uomo. “Non siamo sicuri della sua natura. È tutto tranquillo e ora stiamo evacuando".
"E il resto del gruppo?"
"Troveranno un modo per tornare".
"Quanti sono morti?" chiese Dixon. Ci devono essere stati dei morti. Aveva visto la gente esplodere con i suoi occhi.
"Non dei nostri, signore. Faremo in modo di farle avere queste informazioni non appena saremo decollati. Pronto a salire le scale?"
La scaletta si stagliava sopra di lui. Erano solo una dozzina di scalini. Li aveva contati la prima volta che ci era salito. Normalmente saliva le scale quasi correndo, per dimostrare a tutti i media o alle persone vicine quanto fosse in forma per la sua età.
Ma non quel giorno. Tutto, il mondo intero, sembrava muoversi intorno a lui. Sentì dei conati di vomito. Inciampò e per una frazione di secondo vide due aerei. Poi le loro immagini si unirono improvvisamente.
Un aereo, due aerei, aereo bianco, aereo blu.
"Mi sento un po' stordito", disse.
Lo presero per le braccia e lo trascinarono su per le scale. Per fortuna, le gambe non gli cedettero. Sarebbe stato imbarazzante. Sembrava che i suoi piedi non toccassero il suolo mentre gli uomini lo aiutavano a salire per le scale in fretta e furia.
In pochi secondi erano all'interno dell'aereo. Nessuno gli chiese dove volesse andare. Si spostarono invece in gruppo lungo il corridoio fino all'angusto annesso medico, camminando velocemente, quasi trascinando Dixon di peso.
Passarono attraverso la porta stretta e due agenti lo fecero sedere sul sedile di pelle vicino al lettino. Era uno spazio minuscolo, con apparecchiature mediche allineate alle pareti. Dixon sapeva che più in profondità all'interno della dependance avrebbe potuto aprirsi un tavolo operatorio se si fosse rivelato necessario. Sperava molto di non arrivare mai a tanto.
C'era Travis Pender, il medico dell'Air Force One. Al suo fianco c'era un'infermiera, una donna di mezza età. Il suo viso era sempre serio. Dixon la conosceva, ma al momento la sua mente sembrava…
"Buon giorno, Signor Presidente", disse.
"Ciao", disse Dixon. Non provò nemmeno a chiamarla per nome.
Pender era texano, Dixon lo ricordava. Era stato nell'Air Force. Lui sorrise. Era biondo, molto abbronzato, la sua carnagione era quasi aranciata. Aveva una grande mascella sporgente, come un uomo di Cro-Magnon. Dixon, per lunga esperienza, considerava quella mascella un tratto distintivo di sicurezza. Gli uomini con un tocco di Neanderthal sembravano avere più sicurezza in sé stessi rispetto agli altri uomini, a ragione o meno.
Da parte sua, Pender sorrideva sempre, sembrava sempre divertirsi. La mascella poteva essere una delle ragioni, ma certamente non era la sola. Gli uomini sicuri di sé potevano essere scontrosi come chiunque altro. Pender non lo era. Dixon non capiva quell'uomo.
"Come ti senti, Clem?" disse il dottore. “È una giornata turbolenta, eh? Mi hanno detto che forse hai avuto un po' di vertigini. Hai perso conoscenza? Ti ricordi?
A Dixon balenò un pensiero, non certo per la prima volta. Ma questa volta lo espresse ad alta voce.
“Hai sempre chiamato i presidenti per nome? O lo fai solo me?"
Il sorriso di Pender si fece ancora più ampio. “Chiamo tutti per nome. Siamo tutti uguali agli occhi di Dio". Guardò uno degli uomini dei servizi segreti.
"Puoi aiutarmi a togliergli giacca e camicia?"
L'uomo dei servizi segreti raggiunse Dixon.
"Ce la faccio, grazie!" disse Dixon. "Non sono un invalido!"
Si tolse la giacca e iniziò a sbottonare la camicia. Non aveva senso opporre resistenza. Era successo qualcosa poco prima e lo avrebbero visitato, che gli piacesse o meno.
Travis Pender sorrise ancora di più. Era un sorriso delle dimensioni del Texas.
“Questo è lo spirito giusto. Mi piace".
Dixon scosse la testa.
"Zitto, Travis. Dimmi solo se sono vivo o morto".
Alzò