Il Travestimento Perfetto. Блейк Пирс
Decker, il suo capo fino a tre giorni prima. Rifiutò la chiamata e si alzò per andare verso il parcheggio.
Stava entrando in auto quando le arrivò la notifica di un messaggio in segreteria. Era tentata di cancellarlo senza ascoltare, ma non riuscì a farlo. Sarebbe stato fortemente maleducato, e poi in parte era curiosa di sapere cosa volesse da lei. Si mise in ascolto.
“Ciao Hunt. Spero tu stia bene. Ho in programma di passare in ospedale oggi pomeriggio per fare una visita a Hernandez. Ho sentito che si è svegliato per qualche minuto ieri notte. È una cosa positiva. Ma non è il solo motivo per cui ti chiamo. So che ci hai lasciati appena venerdì e mi scuso se mi permetto anche solo di chiedertelo, ma ho bisogno del tuo aiuto. Mi è appena capitato per le mani un caso enorme, incredibilmente di alto profilo. In condizioni normali lo avrei assegnato a Hernandez. Ma dato che non è disponibile, lo dirotterò su Trembley, che non ha mai avuto un caso così imponente. E il dipartimento scarseggia in maniera impressionante di profiler qualificati, senza te e senza, beh… Moses. Se potessi darmi una mano con questa cosa, anche solo a livello di consulenza, te ne sarei eternamente grato. Fammi sapere.”
Jessie cancellò il messaggio, mise via il telefono e uscì dal parcheggio.
Le dispiaceva per Decker, ma ci sarebbe sempre stato un grosso caso da risolvere. Per la propria salute mentale, lei aveva smesso di occuparsene.
E poi adesso aveva un altro compito su cui concentrarsi, un compito che temeva da un po’.
CAPITOLO QUATTRO
Hannah aveva deciso. C’era qualcosa che non andava in lei.
Era in stallo da un po’, distesa a letto, impegnata nel tentativo di ignorare il pensiero, riflettendo invece su come trascorrere la sua ultima settimana di vacanza prima di andare ai corsi estivi per recuperare tutto quello che si era persa durante il terzo anno. Non c’erano bei film da vedere. La spiaggia era troppo distante dall’appartamento di Kat, che si trovava in centro. E poi lei comunque non aveva la macchina. Tutti i suoi vecchi amici, quelli con cui aveva ormai perso i contatti, vivevano nella San Fernando Valley. E non se ne era fatti di nuovi da quando la sua vita si era trasformata in un continuo ammonimento.
Ma nonostante i tentativi per tenere occupato il cervello, i suoi pensieri continuavano a tornare alla conclusione che aveva raggiunto. Alla fine decise di guardare di nuovo la pagina web. Quella sezione del sito della Mayo Clinic era specifica per il disordine antisociale della personalità, o sociopatia. Lo descrivevano come un disordine mentale ‘in cui una persona mostra costante indifferenza per ciò che è giusto o sbagliato e ignora i diritti e i sentimenti degli altri.’ Diceva anche che ‘tendono a opporsi, manipolare o trattare gli altri in modo duro o con spietata indifferenza. Non mostrano colpa o rimorso per il loro comportamento.’
Suona familiare.
Ancora prima che la dottoressa Lemmon iniziasse a farle domande in quel senso durante le loro sedute di terapia, Hannah si era chiesta perché le venisse da comportarsi in certi modi. Perché aveva reagito all’omicidio dei suoi genitori adottivi più con curiosità che con orrore? Perché la vista di un serial killer che ammazzava brutalmente un uomo davanti ai suoi occhi, per tentare poi di farle fare lo stesso, non l’aveva riempita della repulsione che si sarebbe aspettata? Perché l’assassinio di Garland Moses, un uomo che era stato dolce e gentile con lei, non le aveva lasciato addosso altre sensazioni se non un generale senso di nostalgia per la sua assenza?
Poi l’ultima domanda, quella che la disturbava di più, le si ripresentò nella mente. Come si sarebbe sentita se fosse successo qualcosa a Jessie: la sua sorellastra, la persona che si era assunta la sua tutela e protezione? Ovviamente avrebbe provato ‘tristezza’. Ma sarebbe stata per la mancanza di una persona che le aveva reso la vita più facile e più stabile? Avrebbe compianto la scomparsa della cara estinta o si sarebbe sentita disturbata solo perché la sua vita sarebbe diventata più difficile?
C’è davvero qualcosa che non va in me?
Decise di scoprirlo. Aveva seguito abbastanza corsi di scienza da capire la regola di base: ogni teoria andava testata per poter essere validata o smentita. Ma com’era meglio procedere?
Sentì bussare alla porta e Kat fece capolino con la testa dalla soglia.
“Che combini?” le chiese con tono informale.
“Oh, sto solo controllando i requisiti per i corsi quest’estate, così da non avere sorprese quando inizio scuola la prossima settimana,” mentì.
“Ok,” disse Kat, apparentemente soddisfatta. “Devo uscire per un caso. Sei a posto qui da sola per un po’?”
“Nessun problema. Probabilmente mi guarderò un po’ di TV. Oppure darò un occhio a cosa c’è di infiammabile nel tuo appartamento.”
Kat mandò giù qualsiasi commento le fosse passato per la testa.
“Mi pare bene,” si limitò a rispondere. “Ci vediamo dopo.”
Kat richiuse la porta, lasciandola con i suoi pensieri.
È stato facile.
Aveva mentito con facilità e senza il minimo problema.
È normale?
Decise quindi che sarebbe stata necessaria qualche sperimentazione più formale. Prima di poter determinare se i suoi limiti fossero normali, doveva scoprire quali fossero tali limiti.
Chissà se mi diranno che sono brava.
Jessie era in attesa.
Stava seduta nella sua auto da dieci minuti davanti alla pittoresca casa a un piano in stile anni Cinquanta dove aveva vissuto Garland Moses. Alla fine, con riluttanza, smontò dall’auto e andò alla porta. Erano giorni che stava evitando questa incombenza.
Garland Moses, il suo mentore e amico, che era stato assassinato dal suo ex-marito assetato di vendetta, aveva solo una parente in vita. Sua nipote era una donna mediamente piacevole che Jessie aveva conosciuto al suo funerale. Ma lei e Garland non erano stati in contatto e la giovane era venuta a Los Angeles solo per dargli il suo ultimo saluto.
Non era interessata a fare la cernita dei suoi effetti personali o a gestire l’immobile. Quindi aveva chiesto a Jessie di farlo, perché sapeva che gli era stata amica. Jessie aveva accettato senza entusiasmo e più per senso di dovere nei confronti dell’uomo che le aveva insegnato come diventare una profiler criminale e un essere umano in gamba.
Ma mentre stava all’ingresso della casa, preparandosi ad eseguire le elaborate misure di sicurezza per poter entrare, provò un forte impulso a mollare tutto. L’ultima cosa che voleva fare dopo aver fatto visita al suo compagno infermo e con potenziali danni cerebrali era di mettersi a rovistare tra le cose personali di un uomo che sostanzialmente era morto perché la conosceva.
Basta storie. Ti sei presa un impegno. Mantienilo.
Scuotendo la testa frustrata, Jessie salì i gradini portandosi davanti alla porta della piccola ma ordinata casa di Garland. Dopodiché seguì le dettagliate istruzioni che l’avvocato le aveva dato prima della sua visita lì.
Digitò un codice di sei cifre sul tastierino accanto al campanello. Un coperchio metallico si sollevò, mostrando un piccolo dispositivo di scansione. Jessie si chinò leggermente in avanti e lo strumento scansionò i suoi occhi. Poi posò la mano su una lastra di vetro sotto allo scanner e aspettò che le leggesse le impronte digitali. Dopodiché sussurrò le parole ‘Caffetteria Nickel Diner’ in un microfono. A quel punto, la serratura della porta scattò.
Jessie entrò e si guardò attorno. Aveva discusso con l’avvocato di Garland e avevano concordato che la casa sarebbe stata venduta secondo il valore di mercato. L’arredamento sarebbe stato donato a diverse associazioni benefiche della zona.
Doveva solo dare un’occhiata alle sue carte e agli oggetti personali. Era comunque un compito sconsolante. L’ultima volta che era venuta qui, una settimana fa, aveva scoperto che Garland aveva tenuto un registro di tutti i casi che aveva gestito, sia all’FBI che più tardi come consulente al Dipartimento di Polizia di Los Angeles. C’erano un sacco di scatoloni, con documenti che per la