La Vicina Perfetta. Блейк Пирс

La Vicina Perfetta - Блейк Пирс


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sta succedendo, Ryan?” gli chiese. “Ti stai comportando in modo strano.”

      Lui si voltò a guardarla e Jessie ebbe l’impressione che i suoi occhi fossero lucidi. Sembrava sul punto di rivelarle qualcosa, ma poi la sua espressione mutò e lei capì che aveva cambiato idea.

      “Mi sa che sono solo fuori forma. Non mi aspettavo di essere svegliato nel mezzo della notte con questo genere di notizia. Non era quello che speravo.”

      Ebbe ancora l’impressione che le stesse nascondendo qualcosa, ma non insistette.

      “C’è niente che posso fare per aiutarti?”

      “Grazie, ma no. Dovresti tentare di tornare a dormire. La cosa migliore che puoi fare in questo momento è prenderti cura di te.”

      “Ok,” disse lei prima di chiedere: “Garland ti viene incontro lì?”

      Ryan mandò giù una grossa sorsata d’acqua dal bicchiere sul comodino prima di risponderle.

      “È già lì,” le disse, alzandosi in piedi.

      “Piuttosto impressionante per un vecchietto,” commentò lei, incapace di nascondere il proprio stupore. “Quell’uomo è pieno di sorprese.”

      “È un bel tipo,” confermò Ryan mentre si chinava su di lei per darle un bacio sulla fronte. “Cerca di tornare a letto. Ci sentiamo domani mattina.”

      “Ti amo,” disse Jessie mentre si sdraiava di nuovo.

      “Anch’io ti amo,” le rispose lui sottovoce spegnendo la luce sul comodino e uscendo.

      Nonostante l’ammonizione di Ryan, Jessie non riuscì a prendere sonno. Per i venti minuti successivi, si agitò e rigirò, ma non fu capace di trovare una posizione comoda. Qualcosa nell’atteggiamento di Ryan quando aveva ricevuto la telefonata continuava a ritornarle alla mente.

      Quando stava ascoltando la telefonata di Decker, Ryan aveva assunto un’espressione che lei non gli aveva quasi mai visto in volto. Non era semplice shock o tristezza. Era una combinazione che sembrava più grande e molto più profonda. E poi le venne in mente. Per un secondo, prima di riuscire a ricomporsi, le era apparso devastato.

      Si mise a sedere. Ora era impossibile che potesse riaddormentarsi. Andò in bagno e si spruzzò il viso di acqua fresca. Fissando la propria immagine nello specchio, fu contenta di vedere che i suoi occhi non erano cerchiati dal classico rossore della stanchezza. Ovviamente questo sarebbe presto cambiato se fosse rimasta in piedi tutto il giorno a partire da adesso, come sembrava essere il caso.

      Tornò al letto e si risedette. La sua mente continuava a tornare all’espressione di Ryan quando Decker aveva iniziato a parlargli. Qualsiasi cosa il capitano gli avesse detto, riguardava qualcosa di orribilmente sbagliato.

      Jessie prese il telefono e stava per chiamare Garland quando ci ripensò. Ryan le aveva detto che si trovava già sulla scena del crimine. Questo significava che probabilmente era molto impegnato e sicuramente non dell’umore per dare delle risposte alle sue domande. Chiamò invece la reception della stazione centrale, dove il sergente di turno le diede l’indirizzo di Manhattan Beach.

      Senza neanche riconoscere formalmente a se stessa quello che stava facendo, iniziò a vestirsi. Cinque minuti dopo era pronta per partire. Scribacchiò un rapido appunto per Hannah e fece scivolare il bigliettino sotto alla porta della sua camera. Poi uscì di casa, assicurandosi di attivare tutti i sistemi di sicurezza da remoto mentre si dirigeva verso la sua auto.

      Sapeva che Ryan e Garland si sarebbero incazzati vedendola apparire così e intromettersi sulla scena del crimine. Ma non le interessava. C’era qualcosa che non andava. Se lo sentiva nelle ossa.

*

      Pur perdendosi un poco, Jessie arrivò alla spiaggia in un batter d’occhio. Ma alle 3:30 del mattino ci voleva comunque la metà del tempo, anche sbagliando l’uscita e dovendo tornare indietro di un tratto. Le strade erano per lo più silenziose. Mentre si avvicinava alla costa, una spessa coltre di nebbia calò attorno a lei, facendo assomigliare i lampioni a delle soffuse lanterne di un isolato faro. Il loro bagliore donava allo scenario un’atmosfera piuttosto tetra.

      Quando arrivò, Jessie parcheggiò in Manhattan Avenue, subito a ovest del molo e a un isolato circa da dove il GPS le indicava l’indirizzo di destinazione. Percorse a passo rapido la Strand. Anche se a quell’ora del mattino non poteva vedere l’oceano, si sentivano le onde che si infrangevano sulla spiaggia vicina.

      Non dovette cercare molto o sforzare la vista per trovare la sua destinazione. Quando fu sulla Strand, anche con la nebbia il cielo era rischiarato dalle luci di diversi veicoli di emergenza. Mentre si avvicinava alla casa, Jessie contò almeno mezza dozzina di auto della polizia, un’ambulanza e il furgoncino del medico legale. L’intera area attorno alla villa era pattugliata da diversi agenti che stavano di guardia, evitando che eventuali curiosi si avvicinassero troppo.

      Jessie si avvicinò a un giovane agente dal volto spaventato e mostrò il proprio cartellino, immaginando che fosse il modo più semplice per passare la barriera.

      “Lavoro con il detective Hernandez,” disse in modo vago. “Puoi dirmi dove si trova?”

      “È di sopra,” disse l’agente. Anche se non l’aveva mai incontrato, Jessie ebbe l’impressione che il giovane fosse piuttosto scosso. Guardò il suo cartellino identificativo.

      “Tutto bene, agente… Timms?”

      “Si, signora,” le assicurò lui, ricomponendosi. “È solo che avevo conosciuto la vittima. Mi piaceva. E poi sono stato io a trovarlo.”

      “Capisco,” disse Jessie, dandogli una pacca amichevole sulla spalla. “Non è mai facile quando c’è un collegamento personale.”

      “No, signora,” disse lui, sollevando il nastro di delimitazione per farla passare sotto.

      “Come ti è capitato di trovare la vittima così a notte fonda?”

      Si rese conto che la domanda suonava accusatoria, anche se non aveva voluto porla con quell’intenzione.

      “Avrebbe dovuto restituire le chiavi dopo qualche ora. Non vedendolo tornare, sono venuto a dare un’occhiata e…” Cedette, sopraffatto dall’emozione.

      Jessie avrebbe voluto chiedere perché qualcuno avrebbe dovuto restituire una chiave alla polizia così a notte fonda, ma capiva che il ragazzo non era nella condizione di risponderle, quindi lasciò perdere.

      “Grazie per il tuo aiuto, agente,” gli disse. Incapace di pensare a nient’altro da dire per confortarlo, si girò e si diresse verso la casa.

      Mostrò il proprio cartellino anche all’agente che stava di guardia alla porta. Lui si fece da parte per farla entrare. Jessie guardò il pavimento del foyer e vide il contorno tracciato con il gesso dove si era trovata presumibilmente la prima vittima. Sollevò poi lo sguardo verso la sommità delle scale, da dove sentiva provenire diverse voci. Una di esse sembrava quella di Ryan.

      Iniziò a salire le scale, quando un altro agente che si trovava alla base delle stesse e che sembrava essere un sergente alzò una mano. Diversamente dall’agente Timms, questo sembrava più anziano ed esperto.

      “Posso aiutarla, signora?” chiese con gentilezza ma allo stesso tempo con tono duro.

      “Lavoro con il detective Hernandez,” disse Jessie, mostrando per la terza volta le proprie credenziali.

      “Gli faccio sapere che è qui,” disse il sergente, il cui cartellino diceva ‘Breem’, senza però spostarsi.

      “Sento la sua voce,” disse Jessie con tono più irritato di quanto avrebbe voluto. “Posso farglielo sapere io quando arrivo di sopra.”

      “Mi spiace, signora. Il detective Hernandez è stato chiaro quando ha ordinato che nessuno deve salire senza la sua esplicita autorizzazione. Vuole che le cose siano fatte in modo estremamente meticoloso in questo caso.”

      “Fa così con tutti i casi,” rispose Jessie con vigore.” Cos’è che rende diverso questo?”

      L’agente


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