Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata. Antonio Ranieri

Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata - Antonio Ranieri


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io, quanto la mia età e la tortura in cui era lo consentivano, mi sforzava di accennarle. Fermato l'asino, parve ch'ella si accingesse a scendere, forse per disciogliermi ed aiutarmi. In quel momento medesimo veniva di giù a tutta furia uno di quei calessi che fanno ancora fede qui della durante barbarie. Il quale, urtato l'asino mentre che la donna ne scendeva, quello, la donna e la cesta dove io era, gittò malamente per terra e tirò via. Potete giudicare voi, o padre, s'io ne fossi pesta e malconcia. La donna si leva furibonda, rialza l'asino, e con infami bestemmie accusando me del sinistro seguíto, mi scioglie un momento, non per sollevarmi, ma per finirmi a furia di battiture; poi mi legò tanto stretta, quanto le bastò la rabbia, e seguitò il suo cammino.

      Sono pochi dì, una povera suora di questo convento, che l'atrocità de' suoi genitori ha sforzata a seppellire qui la sua giovanezza, mi diceva che il deliquio era il più gran dono della natura. Quando il dolore, ella diceva, oltrepassando le forze umane, ucciderebbe, la natura ci soccorre col deliquio, e ci sospende un momento la vita per conservarcela.

      Ma questo estremo conforto del dolore mi è conceduto assai di rado. Io sono facile a svenirmi; ma lo svenimento, togliendomi tutte le facoltà con le quali potrei resistere al dolore, non mi toglie la conoscenza e il senso di esso. Resto immobile e muta come un sasso; ma vedo e odo tutto quello che mi avviene intorno, ed assaporo a sorso a sorso tutto l'orrore della morte senza ottenerla. Così mi ricordo di aver letto d'un moribondo, che prima di chiudere gli occhi alle tenebre dell'eternità, vedeva volteggiargli intorno l'avvoltoio, il quale, come è natura di quell'animale, attendeva ch'egli spirasse per divorargli le viscere.

      Insino da quella tenerissima età, io ebbi il primo esempio di questo mio sinistro naturale. Perchè, seguitando la donna il suo spietato cammino verso il ponte della Maddalena, e piovendomi e ventandomi e fulminandomi nel viso, perchè s'era il cielo così sdegnato che mai non fu rovescio d'acqua simile a quello, io non poteva più nè muovermi nè piangere, e posso dire ch'io non era più viva; e pure non perdetti mai il conoscimento.

      Giunti che fummo al ponte della Maddalena, una gran mano di stradieri, gabellieri, birri, grascini ed altre spie, ci furono tutti addosso. Alcuni diedero di piglio alla donna, e la venivano tastando e ricercando per tutta la persona. Altri si spinsero addosso all'asino. frugando nelle bisacce, che gli pendevano da ambo i fianchi, e di sotto il basto, e per entro un fascio di paglia che gli era in groppa. Un brutto ceffo fra costoro, con lunghi mustacchi e barbe interminabili, e con uno di questi sigari in bocca, accostatosi alla cesta dov'era io meschinella, la sciolse dall'asino e la pose a terra. Vedendo ch'io era assicurata alla cesta con infiniti giri di corda, fu infastidito di sciogliermi. Ma non voleva lasciare intentata quella poca di paglia sopra la quale io giaceva. Però, impugnata una sorta di bacchetta di ferro puntuta e molto somigliante a un lungo stile, cominciò a ficcarla da tutte le parti in quella paglia, non senza rischio di passarmi fuor fuora, nè senza ferirmi nel petto che n'ho ancora il margine. E intanto che m'era sopra, pure fumando e dimenando quel sigaro alla sgherresca, mi cadevano quale sul viso e quale altrove, ch'ero tutta ignuda, molti minuzzoli della paglia del sigaro ancora ardenti, e mi bruciavano or qua or là queste misere carni.

      La donna non rifinava di gridare fortissimo, ch'ella non entrava nella città, ma ne usciva per tornare a Sant'Anastasia dov'ella abitava. Allora uno di quei manigoldi che l'erano addosso, cavandole una pollastra della tasca:

      Oh! perfida maliarda, gridò, non isquittire più. Tu devi essere impiccata per la gola, perchè ci hai la peste qui dentro. Or non sapevi tu ch'e' v'è la peste a Nola e che le galline ve l'hanno appiccata? e che però le si debbon tutte lasciare ai sergenti della corte? Ora non ci tornerai a Sant'Anastasia.

      Alla vista della pollastra, tutta quella canaglia fu speditissima a strascinare l'asino, la donna e la cesta in una stanza terrena perfettamente buia, dove era il maggior puzzo che si possa immaginare, perchè serviva di privato a quei mascalzoni. Stemmo colà dentro tutto quel giorno e la notte seguente, piangendo e schiamazzando la donna in un modo assai pietoso. Poco prima che spuntasse il nuovo giorno, venuta come una maniera di muta al proposto e ad alcuni di quei masnadieri, il nuovo ufficiale ci lasciò andare alla nostra ventura.

       Indice

      Io, come potete immaginare, aveva perduti affatto i sentimenti, e mi risentii soltanto sulla via di Portici, parte per effetto del sole che, innalzatosi dal Vesuvio, mi feriva vivissimamente gli occhi, e parte per un poco di pane bigio, masticato prima da lei, che la donna m'introdusse in bocca a tutta forza.

      Giunti al posto che domandasi lo Sperone, svoltammo a mano manca, e camminato un pezzo avanti, arrivammo a uno squallido villaggio domandato la Madonna dell'Arco. Quivi, mentre che passavamo, venivano alcune donne, conoscenti forse della mia novella madre, e si affacciavano alla cesta per vedere la fanciulla della Nunziata. Mi consideravano un poco come si considera un uccello strano o altro nuovo animale; poi partivano con un viso dov'era scolpita l'indifferenza e la salvatichezza.

      Indi pervenimmo presso a Sant'Anastasia. L'asino si fermò da se all'usciolino d'un tugurio tutto affumicato, d'un sudiciume e d'una miseria che non si può descrivere. Volti a caso gli occhi a sinistra, vidi un altissimo ed ombroso pino, la cui vista, non so perchè, mi causò un'impressione di malinconia profondissima. La donna smontò dell'asino, con una rozza chiave aperse l'usciolino, dietro al quale un gatto ed un grosso cane da pagliaio si lagnavano della lunga fame: ed entratasene dentro, tosto l'asino l'entrò appresso.

      Tav. I.

       ... un altissimo ed ombroso pino, la cui vista, non so perchè, mi causò un'impressione di malinconia profondissima. — Carte 35.

      Il tugurio era così fatto. L'usciolino gli serviva a un tempo di finestra, perchè non altronde passava quel poco di luce che l'illuminava. A mano sinistra era gran copia di strame sparso per terra. Nel mezzo del muro era un pozzo aperto, e più in là una mangiatoia, dove ruminavano due macri buoi, che mostravano essere la ricchezza della casa. Sullo strame si voltolava e fregava un maiale di maravigliosa grossezza, che grugnì forte al nostro entrare. A mano dritta presso all'uscio era un acquaio, ed appresso un focolare con un cammino nerissimo. Nel fondo usciva dal muro un muricciuolo, dove era un pagliaccio: e questo era il letto della padrona.

      La donna tolse il basto all'asino, che se n'andò alla mangiatoia accanto ai buoi. Poi mi sciolse e sollevò dalla cesta; ed ammucchiato un poco di strame sotto il parapetto del pozzo, fra l'asino ed il maiale, quivi riponendomi, m'accennò minacciosamente ch'io stessi cheta. Di poi tratti fuori i buoi con l'aratro, m'inchiavò dentro al buio con quattro de' sei quadrupedi coabitanti con lei, ed andò via.

       Indice

      Padre mio amoroso, io non imprendo a raccontarvi quello ch'io soffersi in quell'infame borgo tutto l'inverno e tutta la seguente state. I miei patimenti furono inauditi, e s'io li raccontassi, sarebbero incredibili. Ah padre mio! così divisa, come mi sento, da ogni cosa terrena, così vicina, quale sono, al sepolcro, a quel porto che tanto sospirai, pure s'io mi rivolgo a contemplare l'oceano di dolore dal quale approdo, non posso fare che non mi prenda un'infinita pietà di me medesima, e ch'io non versi un torrente di lacrime. Ah padre! se un lampo di piacere balenò nella vita, si dileguò per sempre; e se traluce un istante al pensiero, non è più piacere: ma la memoria del dolore, è dolore sempre.

      Come io guarissi della spalluccia slogata e della ferita nel petto, non mi rammento. Ma certo la sola natura n'ebbe il merito. Io passava i giorni e le notti scalza e presso che ignuda fra la più mortale umidità, e sentivo quasi sempre quel senso di smania inenarrabile, che poscia intesi essere la febbre. Un tozzo di nerissimo pane inzuppato nell'acqua era tutto il mio nutrimento; quello squallido tugurio era tutto lo spazio ove mi era conceduto di estendere i miei mal fermi passi; quel poco di strame tutto il mio letto; e le più barbare e spietate percosse erano il solo avvenimento che veniva a rompere l'orribile uniformità della mia giornata. O Dio


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