Minerva e lo scimmione. Ettore Romagnoli

Minerva e lo scimmione - Ettore Romagnoli


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erudizione si occupi fin che vuole dei minimi fatti, dei minimi autori: è suo diritto. Ma nelle scuole, anche universitarie, si devono studiare i grandi, e solo i grandi. Il contatto con la grande arte e con le grandi anime eleva i giovani e li accende ad opere egregie: razzolare nelle minuzie isterilisce il cuore e l'ingegno.

       * * *

      E fin qui, dunque, chiariti gli equivoci, fra il Buonaiuti e me esiste sostanziale concordia. Ora, poi, comincia il dissidio.

      Tralasciando infatti i particolari, e venendo al nodo della questione, il Buonaiuti non accoglie questo mio concetto della filologia ancella; anzi mi richiama a quella nozione ampia e complessa della filologia che «se fu grossolanamente e pesantemente formulata dal Wolf, fu invece magnificamente definita dal sommo filosofo italico, da Giambattista Vico, come «la scienza della esperienza umana, attraverso il discorso parlato o scritto». E questa scienza «consente di abbracciare sotto un'unica categoria le molteplici discipline che vanno sotto il nome ben piú vago di storico-letterarie, e stringerle in un fascio, come appaiono strette insieme sotto la denominazione di giuridiche, filosofiche e scientifiche, le discipline che studiano rispettivamente e interpretano la lettera (e lo spirito? Soppresso?) del diritto, i problemi metafisici o quelli empirici».

      Avvenuto il collegamento in un fascio di tutte le discipline storico-letterarie, s'intende che si deve applicare ad esse un metodo speciale di lavoro, che il Buonaiuti definisce «paziente industria del metodo induttivo».

      La definizione è senza dubbio sonora e decorativa. Stringere in fascio i diversi rami d'una dottrina è operazione che semplifica ed agevola l'economia del sapere. Metodo induttivo, ciò è Galileo, scienza moderna, scoperte, chiniamo, dico meglio, chino la fronte reverente. Ma vediamo un po' che cosa realmente significhino, a stringerle da vicino, tutte queste belle parole.

      Le discipline da raccogliere, secondo il Vico, sotto le grandi ali della filologia, sarebbero l'epigrafia, la numismatica, la cronologia, «i commentari» (non istorie, dunque) sulle repubbliche, i costumi, le leggi, le istituzioni. Aggiungiamo pure la etnografia, la geografia antica, la mitologia comparata, l'archeologia, la diplomatica, la paleografia, ecc.

      La mèta che si prefiggono tali studî dev'essere, secondo il Vico, di confermare la tradizione [firmare constantiam auctoritatis].

      E quale sarà il metodo da applicare per raggiungere questo scopo? La tradizione, con i suoi errori, le sue incertezze e le sue alterazioni, è un fatto della intelligenza umana. Perciò cade sotto certe leggi della psicologia, della ideologia e della logica[2]. A queste scienze, e, in pratica, piú che altro, alla logica formale, attinge il suo metodo questo lavoro di conferma della tradizione.

      Ora, se ciascuna delle discipline sopra enumerate, e le possibili affini, volete chiamarle scienze, padroni, è questione di nomi. Se volete battezzare scienza filologica il loro complesso, accomodatevi. Se volete formulare le minute regole dei metodi applicati a studiarle, nessuno si oppone.

      Il guaio incomincia quando volete accogliere sotto quella denominazione ed imporre quei metodi ad altre discipline che, pur movendo dai medesimi fatti, si prefiggono altro fine ed esigono altro metodo: cioè alla storia, alla storia della letteratura e dell'arte, alla storia della filosofia e alla filosofia (giacché anche questa, e massime la parte antica, si andava allegramente convertendo in filologia).

      In queste discipline, che per brevità chiamerò morali, lo scopo supremo non è punto quello di allineare fatti, e siano pure emendati, emendatissimi. E perché questo non è il loro scopo, non ha diritto sovra esse il metodo che a quello scopo conduce: il metodo filologico, che solo per grave abuso, lo vedremo, il Buonaiuti identifica col metodo induttivo. Non già imporre orgogliosamente il proprio metodo, bensí offrire con deferenza il materiale da lei raccolto deve la filologia alle discipline morali.

      Tutto questo dovrebbe essere elementare, chiaro, assiomatico. Se cosí oggi non sembra, è colpa del grave errore, da me piú volte denunciato (v. pag. 78), per cui si è creduto che si potessero identificare le discipline morali con le scienze esatte, e che i fatti offerti allo studio di queste e di quelle, rivestissero il medesimo carattere, e fossero quindi suscettibili del medesimo trattamento. Qui è il grave abbaglio, di qui gli abusi che pretesero e quasi riuscirono a sbalzar di soglio la storia, la letteratura, le arti, la filosofia, per sostituire ad esse la computisteria e l'inventario.

      Pare che quanto dico in «Minerva e lo Scimmione» non sia bastato a chiarire la mia idea. Cercherò di spiegarmi meglio.

      Io immergo una verghetta nel fondo melmoso d'una piccola gora: ed ecco sul velo dell'acqua un pullulare ed un crepitare di bollicine che scoppiano. Se indugio a considerare il fenomeno, una serie di domande affiorano al mio pensiero. Da che cosa sono prodotte quelle bollicine e quello scoppiettío? Da qualche cosa di aereo che si trovava imprigionato nel motriglio. Come poté trovarcisi? E perché se ne è sprigionata quando io v'ho immersa la verghetta? Perché è salita alla superficie? Di che materia s'ebbe a formare la pellicola delle bollicine? Perché queste si sono frante? E perché il crepitio? — Se avvicino ad esse un fiammifero, brilla una vampa, e s'ode uno scoppio. Perché questi nuovi prodigi? E piú insisto, piú si moltiplicano i problemi. E se li risolvo, io scopro altrettante leggi. E ciascuna di queste leggi, snidate dal minuscolo fenomeno, è universale, investe e regola ogni altro fenomeno affine, per quanto solenne e smisurato. Le medesime leggi osservate nella piccola gora reggono la meccanica dei mondi. Quando io le ho scoperte, io posseggo altrettante formule magiche. Applicandole in grande proporzione, io posso illuminare una città, o lanciare un immane ordigno negli abissi del mare o ai vertici dell'atmosfera. E ciò che avviene per questo fenomeno, si verifica per ciascun altro dei fenomeni naturali, anche minimi o impalpabili. Il fremito delle alucce d'una libellula, il guizzolare d'una tenue luce sul mobile specchio d'un'onda, il vario sibilo del vento fra gambi d'erbe ineguali, nascondono, sotto un velo specioso, infinite leggi universali meravigliose. Chi piú riesce a sollevare il velo mirabile, ad insistere, scrutando il fenomeno in ogni suo menomo anfratto, ad incalzarne il principio generatore per ogni piú riposto meandro, sino a coglierlo, a formularlo, a stabilire la legge, quegli è scienziato. E l'esperienza, oramai piú che due volte secolare, dimostra che questo insistente minutissimo esame dei fenomeni, applicato alle scienze fisiche, le costringe, diciamolo con gergo barbarico ma efficace, al loro massimo rendimento.

      Veniamo adesso agli studî storici. Esiste un dubbio se un gran poeta, diciamo Vincenzo Monti, fu battezzato il 15 sera o il 16 mattina. Tizio, sitibondo di verità, sale in ferrovia, accorre sui luoghi, importuna gente, compulsa archivî, scopre l'atto di battesimo, il padrino, la madrina, il prete che battezzò, il chierichetto che porse l'acqua santa, e quanto ebbe di mancia, e gli assistenti, e la progenie degli assistenti; e poi scrive un articolo, due monografie, tre polemiche e un volume di 650 pagine. Tizio è un imbecille.

      Ho scelto il secondo esempio grosso e marchiano, sebbene non fuori dalla possibilità, anzi dalla realtà[3], per rendere l'antitesi piú evidente. Ma è certo che tutti i fatti d'ordine storico, o letterario, o artistico, si troveranno con quello d'ordine fisico in analoga antitesi. In due discipline, cioè la ritmica e la glottologia, torna utile e conduce alla scoperta di leggi una analisi altrettanto minuziosa. Ma egli è che la prima di queste discipline non è morale, bensí fisica, perché, quando è ciò che deve essere, studia fenomeni d'ordine puramente acustico. E la seconda, è in parte (gran parte) fisica, e in parte direttamente psicologica: sicché, piú rigorosamente per quel lato, e meno per questo, rientra nell'àmbito delle vere e proprie scienze esatte. Ma nelle schiette discipline morali, l'insistere indefinitamente sui fatti — una data storica, la originaria lezione d'un passo, perfino l'autenticità di un documento — non conduce di per sé a grandi risultati.

      Tentiamo ora la controprova. Poniamo, che in una osservazione d'ordine fisico, si giunga ad una analisi incompleta o inesatta. Ed ecco, la legge vi sfugge, o, peggio, stabilite una falsa legge, che sarà a sua volta feconda d'errori infiniti. Esempio, il famoso principio dell'orrore pel vuoto. Al contrario, nelle discipline storiche la minore esattezza del fatto non conduce di per sé a conseguenze nefaste. Vico scoprí veri stupendi


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