Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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      «Oh! Non abbia questa paura! Lascerò che la Giustizia segua il suo corso».

      Nelle tasche non aveva nulla di sospetto.

      I cerchi d’acciaio scattarono. I due agenti s’avvicinarono e presero i capi delle catenelle, uno per parte.

      S’avviarono.

      De Vincenzi li fermò.

      «Perché ha messo quattro ferri chirurgici e un camice sui gradini della chiesa di San Vito?».

      Marini non capiva. Dovette ripetergli la domanda.

      «Quattro ferri e un camice? Non so di che cosa voglia parlare. Io non ho messo nulla sui gradini della Chiesa di San Vito».

      Doveva esser vero. Non avrebbe avuto ragione di mentire.

      «Andate» ordinò il commissario.

      Fu il dottore a fermarsi, questa volta.

      «La prego! Mia moglie si trova a Pegli… Villa Doria… L’avverta lei».

      De Vincenzi pensò che non lo avrebbe fatto, ch’era l’unica cosa che non avrebbe avuto la forza di fare, fece un cenno evasivo col capo e si volse subito a Sani.

      «Accompagnalo in guardina. Al Questore penserò io».

      «Tu rimani?» chiese Sani, guardandolo con apprensione, perché lo vedeva pallidissimo, con gli occhi cerchiati e stanchi.

      «Sì» e indicò la porta dietro cui stava la medium. «Quella mi preoccupa».

      Poi ebbe un gesto. Le guardie scendevano già le scale col prigioniero. Prese Sani per un braccio.

      «Dimenticavo! Appena lo hai condotto a San Fedele, va’ a casa sua, corso Plebisciti, 17, e trova il libro.

      È intitolato: La Zaffetta. Reca la data di Venezia, 1531. Trovalo a ogni costo».

      «Non dubitare».

      De Vincenzi rimase in mezzo alla sala, fissando il vuoto.

      Si sentì toccare un braccio. Era Chirico. Aveva i pomelli accessi.

      «Le mie chiavi!» disse. «Potrò riavere il mazzo delle mie chiavi?».

      R

      Fu il giorno del processo, quando quei quattro ferri chirurgici e quel camice apparvero fra i corpi di reato col foglio contenente lo strano invito di consegnarli alla Questura, che anche l’enigma di essi fu chiarito.

      Nessuno era riuscito a capire che cosa c’entrassero col duplice delitto e non c’entravano per nulla, infatti.

      Una coincidenza del Caso!

      Venne uno studente a deporre e a riprenderseli. Uno studente del quarto anno di chirurgia. Glieli avevano sottratti, mentre si trovava nell’Anfiteatro dell’Università, a sezionare un cadavere. Era stato lo scherzo di un compagno…

      Il dottor Marini fu condannato all’ergastolo. Non avevano ammesso l’infermità mentale, o non gli avevano accordato le attenuanti.

      De Vincenzi quella sera stessa partì per l’Ossola.

      Manteneva la promessa fatta a Sani di prendersi un po’ di riposo.

      E rivide la casetta in mezzo all’orto, la mamma, la domestica e il cane…

      Nelle notti stellate, andava a sedere sull’erba dei monti e guardava il cielo. «Tutto un mondo ci circonda, che noi non conosciamo».

      7

      1936

      Le caprette

      L’uomo andava per i viali del giardino pubblico, interessandosi a tutto con placidità contemplativa.

      Si fermava a guardare i cigni nel laghetto, il pellicano sull’erba, le scimmie nella gabbia, la foca a piatto sulla riva. I bimbi, che giravano a tondo; le bimbe che a passetti misurati avanzavano e cantavano, tenendosi per le manine: «Ecco l’ambasciatore col trallarillallero…». Non si curava affatto però degli uomini e delle donne sulle panchine, come se per lui non contassero che le anime innocenti – cigni, pellicano, scimmie, foca, bimbi – e anco gli alberi e l’erba dei prati, l’acqua e il giuoco del sole tra le fronde.

      Ma tutti guardavano lui, che passava lentamente pei viali. Erano sguardi ironici, brevi sorrisi. E i bimbi e i fanciulli mandavan franche risate e ammiccavano ed emettevano gridi repressi.

      Un buffo tipo. Una maschera di carnevale. Uno spauracchio da notte di Natale.

      Il cappello duro, a tese rotonde piatte, nero, lucido per la spazzola, era senza un grano di polvere. La giacca a coda, di taglio antico, di stoffa rigida e spessa, nera essa pure, appariva lustra ai gomiti e alle bordure filettate di saia. I pantaloni neri, troppo lunghi e troppo stretti, che ricadevano a mantice sulle scarpe, gli fasciavano le gambine sottili come quelle d’un uccello. E le scarpe a punta quadra, opache, a elastici, dovevano avere almeno 42 di numero o forse più, un numero che non si trova nelle botteghe.

      Sotto le tese del cappello, un naso a clava, rosso, dai fori tondi, aperti, irsuti di pelo nero. Una bocca larga, dalle labbra sottili, esangui. I pomelli sporgenti, la mascella quadra e potente, una mascella anglosassone, di quelle che Charlot ha preso per modello delle sue scarpe. Gli occhi azzurri, piccini piccini, a succhiello, sotto le sopracciglia folte. E le orecchie ad ansa, coi lobuli carnosi polputi paonazzi.

      Poiché il sole di maggio in quel pomeriggio senza nubi riscaldava l’aria, l’uomo si toglieva di tanto in tanto il cappello, come se volesse dar respiro al cranio, e allora si vedevano i capelli tagliati corti, d’un nero assurdo, tendente al verde, il nero di una cattiva tintura o forse egli non adoperava per tingerseli che la cenere di sughero fissata con un oscuro processo di brillantina e di gomma.

      L’uomo doveva esser alto almeno un metro e settanta ed era magro, di ossa massicce. Un’impalcatura umana da specimen trogloditico.

      Andava così pel giardino pubblico, con le mani dietro alla schiena, il passo lento, guardando i bimbi e le bestie, le chiazze del sole sull’erba e sulla ghiaia, lo specchio dell’acqua che rifletteva le piante. Passò davanti a una statua di bronzo e non la guardò, intento a osservare il pellicano, che allungava il collo sinuoso, piluccando l’erba col lungo becco smisurato. Uscì sul largo spiazzo davanti alla latteria. Le panchine attorno erano gremite. Tutta l’aria risuonava di gridi, di risate, di trilli, di voci.

      Sotto un albero, la carrozzella delle caprette, vuota, attendeva i suoi clienti minuscoli, fatta come un veicolo d’altri tempi, con la serpa alta, il corpo centrale a giardiniera, un ultimo sedile posteriore. Tutta fiorita di trombette a pompa, dipinta di giallo, coi cuscini di cuoio sbiadito.

      L’uomo dal cappello duro procedeva diritto verso il centro dello spiazzo. A un tratto esitò. Si guardava attorno, dietro la schiena batteva il dorso di una mano sulla palma dell’altra, con un moto nervoso. Riprese qualche passo indeciso, procedette a zig zag. Vide la carrozzella delle caprette e vi si diresse, affrettandosi.

      Poi fece una cosa stupefacente. Salì in quella carrozzella lillipuzziana, sedette nell’interno della giardiniera, che occupò tutta. Per farlo, dovette piegare le gambe, rattrappendole ed ebbe le ginocchia sotto il mento.

      Un mormorio gioioso di meraviglia si sollevò attorno a lui. Qualche bimbo gridò e batté le mani.

      Il padrone delle capre intervenne, sollevando la frusta.

      L’uomo lo fissò con le sue pupille a succhiello, azzurro mare.

      — Mi conduca a fare un giro!

      Lo stupore del padrone delle capre fu tale, che non


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