Tuareg. Alberto Vazquez-Figueroa
di pericolo e morte, e solo quando videro giungere l’uomo che correva con le vesti al vento brandendo un coltello cominciarono a correre per perdersi di vista nella pianura.
Gacel arrivò fino alla preda ferita che fece un ultimo sforzo per sollevarsi e seguire il suo branco, ma qualcosa dentro di lei si era rotto e niente obbediva al comando della sua mente. Soltanto i suoi occhi, enormi e innocenti, rispecchiarono la grandezza della sua angoscia quando il targui la prese per le corna, gli rivoltò il muso verso La Mecca e la sgozzò con un taglio deciso della sua affilata sciabola.
Il sangue sgorgò a zampilli schizzandogli i sandali e il bordo del jaique, ma Gacel non ci badò, soddisfatto nel verificare che la sua mira ancora una volta era stata eccellente e che aveva colpito la preda nel punto desiderato.
Il tramonto lo sorprese mentre stava ancora mangiando e le prime stelle non erano ancora apparse che già
dormiva, protetto dal vento da un cespuglio e riscaldato dalla brace del focolare.
Lo svegliò il ridere delle iene che accorrevano al richiamo dell’antilope morta e vide che giravano intorno anche gli sciacalli, per cui alimentò il fuoco che li allontanò fino al limite delle ombre e rimase così sdraiato con la faccia al cielo, ascoltando il vento e meditando sul fatto che quel giorno aveva ucciso un uomo, il primo che uccideva nella sua vita, e questo significava che la vita non poteva essere più la stessa da allora in poi.
Non si sentiva colpevole, perché considerava giusta la sua causa, ma lo preoccupava la possibilità che si trasformasse in una di quelle scatenanti guerre fra tribù di cui aveva tanto sentito parlare dagli anziani, nelle quali arrivava un momento in cui nessuno sapeva più la causa delle morti, né il nome del promotore. E i tuareg, i pochi imohag che ancora vagavano per i confini del deserto, fedeli alle loro tradizioni e leggi, non potevano eliminarsi gli uni con gli altri, perché dovevano già impegnarsi a difendersi come potevano dall’avanzata della civiltà.
Rievocò la strana sensazione che aveva percorso il suo corpo, quando la sua sciabola era penetrata blandamente, quasi senza sforzo, nel ventre di Mubarrak e gli sembrò di udire ancora il rauco rantolo che era uscito dalla sua gola in quell’istante. Ritirando il braccio fu come se si fosse portato via appesa alla punta della sua takuba la vita del suo nemico ed ebbe paura della possibilità di usare nuovamente la sua sciabola contro qualcuno. Ma poi ricordò il secco rintronare dello sparo che aveva ucciso il suo ospite addormentato e lo consolò l’idea che non poteva esistere perdono per i colpevoli di un simile crimine.
Stava scoprendo che, se amara era l’ingiustizia, ugualmente amaro era cercare di correggerla, perché uccidere Mubarrak non gli aveva dato nessun piacere, bensì una profonda e scoraggiante sensazione di vuoto. Come il vecchio Suflem aveva detto, la vendetta non fa tornare in vita i morti.
Si domandò poi perché fosse sempre stata importante per i tuareg quella legge non scritta dell’ospitalità che si anteponeva a tutte le altre leggi, perfino a quelle coraniche, e cercò di immaginare come sarebbe stato il deserto se il viaggiatore non avesse avuto l’assoluta sicurezza che ovunque fosse andato sarebbe stato ben accolto, aiutato e rispettato.
Raccontano le leggende che in una certa occasione due uomini si odiavano in tale modo che uno di loro, il più debole, si presentò improvvisamente nella jaima del suo nemico sollecitandone l’ospitalità. Rispettoso della tradizione, il targuf accettò il suo ospite, gli offrì la sua protezione e dopo qualche mese, stanco di sopportarlo e di dargli da mangiare, gli promise che poteva andare via in pace perché mai avrebbe attentato contro la sua vita. Da allora, e ciò sembrava accadere da moltissimi anni, quella era diventata una pratica abituale tra i tuareg che risolvevano in quel modo i loro dissensi e ponevano fine ai loro dissidi.
Come avrebbe reagito lui stesso, se Mubarrak si fosse recato al suo accampamento a chiedere ospitalità cercando di farsi perdonare la colpa commessa? Non poteva saperlo, ma probabilmente avrebbe agito come il targuf della leggenda, perché non sarebbe stato logico commettere un delitto per punire chi aveva commesso esattamente quello stesso delitto.
In quel tempo, in cui gli aerei solcavano gli altissimi cieli del deserto e i camion transitavano per le piste più conosciute spingendo la sua razza verso i più nascosti angoli della pianura, non era facile immaginare
per quanto tempo sarebbe vissuta ancora la sua razza in quella pianura, ma per Gacel era chiaro che, finché uno solo di loro fosse sopravvissuto sulle sabbie, sulle infinite pianure senza vita o sulle pietraie senza orizzonti della hamada, la legge dell’ospitalità doveva continuare a essere sacra, in caso contrario nessun viaggiatore si sarebbe più arrischiato ad attraversare il deserto.
Il delitto di Mubarrak non ammetteva discolpe e lui, Gacel Sayah, si sarebbe incaricato di far comprendere a quelli che non erano tuareg che nel Sahara le leggi della sua razza dovevano continuare a essere rispettate, perché erano leggi adatte all’ambiente, senza le quali non sarebbe esistita alcuna possibilità di sopravvivenza.
Arrivò il vento e con lui il giorno. Iene e sciacalli compresero che ormai avevano perso le loro scarse possibilità di mangiarsi un pezzo di antilope e si allontanarono, grugnendo e lamentandosi, verso le loro oscure tane, come tutti gli altri abitanti della notte: il fenec dalle lunghe orecchie, il topo del deserto, il serpente, la lepre e la volpe.
Quando il sole cominciò a riscaldare stavano già dormendo, conservando le loro forze fino a che le ombre della notte avessero nuovamente reso sopportabile la vita nella più desolata regione del paese perché lì, al contrario che nel resto del mondo, le attività si svolgevano di notte e il riposo di giorno.
Solamente l’uomo, nonostante i secoli, non era riuscito ad adattarsi completamente alla notte, e con il primo albeggiare, Gacel cercò il suo cammello che pascolava a poco più di un chilometro di distanza, lo prese per la cavezza e riprese, senza fretta, la sua marcia verso ovest.
IL posto militare di Adoras occupava un’oasi a forma di triangolo, poco più di un centinaio di palme e quattro pozzi, proprio nel cuore dell’estesissimo fiume di dune, per cui poteva considerarsi un autentico miracolo di sopravvivenza minacciato costantemente dalla sabbia che lo accerchiava proteggendolo dal vento e trasformandolo, proprio per questo, in una specie di forno che a mezzogiorno raggiungeva a volte i sessanta gradi centigradi.
Le tre dozzine di soldati che componevano la guarnigione passavano la metà della loro vita maledicendo la loro sorte all’ombra delle palme e l’altra metà spalando sabbia nel disperato sforzo di farla retrocedere per mantenere libera la stretta pista di terra che permetteva di comunicare col mondo esterno e di ricevere provviste e corrispondenza una volta ogni due mesi.
Da quando trent’anni prima un colonnello impazzito aveva avuto l’assurda idea che l’esercito dovesse controllare quei quattro pozzi che erano, d’altra parte, gli unici esistenti in quasi cento chilometri intorno, Adoras era divenuto il «destino maledetto», dapprima solo per le truppe coloniali, in seguito anche per gli indigeni come dimostravano le tombe che si elevavano all’estremità del palmeto, nove dovute a «morte naturale» e sei al suicidio di chi non era riuscito a sopportare l’idea di sopravvivere in un simile inferno.
Quando un tribunale era incerto se mandare un colpevole al muro, condannarlo all’ergastolo o commutargli la pena in quindici anni di servizio obbligatorio ad Adoras, aveva piena coscienza di quello che faceva, per quanto all’inizio il colpevole considerasse che tale commutazione gli fosse favorevole.
Per il capitano Kaleb-el-Fasi, comandante in capo della guarnigione e autorità suprema in una regione estesa quanto metà Italia, ma nella quale vivevano poco più di ottocento persone, i sette anni che trascorreva ad Adoras costituivano la punizione per aver ucciso un giovane tenente che aveva minacciato di svelare le irregolarità dei conti del reggimento nella sua precedente destinazione. Era stato condannato a morte, ma suo zio, il famoso generale Obeid-el-Fasi, eroe dell’indipendenza, grazie al fatto che era stato uno dei suoi aiutanti e uomini di fiducia durante la guerra di liberazione, aveva ottenuto che gli si permettesse di riabilitarsi al comando di un distaccamento militare dove non si poteva inviare nessun altro militare di carriera che non si trovasse nelle stesse condizioni.
Tre anni prima, basandosi unicamente sulle informazioni che erano