Scherzi Dell'Amicizia. Marco Fogliani
chiesi io più tardi con indifferenza, per non far vedere che ci tenevo troppo. Ma lei, mentendo spudoratamente:
“Non so, non mi risulta. Ancora non ho saputo niente. Magari ti faccio sapere.”
E così la volta dopo osservai anche lei dalla finestra, puntino dall'alto, pecorella del gregge, e mi ritrovai sdraiato sul mio letto a piangere più del solito,
Poi un giorno mi accorsi di Augusto. Augusto era un mio compagno di classe, alto e grosso, ma non muscoloso; eppure uno che passava inosservato. Alle lezioni, comprese quelle di religione, era sempre presente, ma non sembrava mai parteciparvi veramente. La sua testa sembrava altrove, chissà dove. Se un giorno avessero messo un suo manichino sulla sua sedia al posto suo, forse io stesso non mi sarei accorto della differenza.
Constatando ciò diventai persino più indulgente coi miei compagni: forse io facevo loro lo stesso effetto che faceva Augusto a me, l'effetto del mantello dell'invisibilità.
Mi resi conto che alle uscite di classe lui era quello che mancava sempre, ma proprio sempre, oltre a me, che anzi una volta avevo partecipato. Per questo suscitò in me una gran curiosità, ed una gran simpatia.
“Ma tu non esci mai il sabato pomeriggio?”, fu forse la prima domanda che gli feci da quando lo conoscevo.
“No, di solito no”, mi rispose lui, di poche parole come sempre.
“E … che cosa fai nel tempo libero?”, gli chiesi sempre più incuriosito.
“Dipende. Alle volte vado in skate-board, oppure ballo, tipo balli rap o roller dance o altre cose moderne, non so se hai presente. Tanto poi le persone con cui lo faccio sono le stesse.”
Mi si spalancò la porta di un mondo sconosciuto e soprattutto che non avrei mai immaginato. Anzi, mi resi conto che fui io ad aprire quella porta, che era sempre stata lì davanti. E mi venne voglia di entrare.
“Una volta potrei venire a vederti?”, gli chiesi.
“E perché no? Se vuoi.”
Due o tre volte a settimana, verso le sei o le sette di sera, si vedeva con un gruppo di ragazzi tutti con berretto a visiera, jeans esageratamente larghi, scarpe di gomma o pattini ai piedi o skate in mano. Era come fosse un altro gregge, che però si spostava più in fretta e freneticamente, su rotelle. Una volta su due andavano in uno scantinato con uno stereo portatile e si scatenavano nei loro balli, in cui persino i più corpulenti come Augusto rivelavano un'agilità inaspettata nel roteare e muoversi a scatti e rotolarsi per terra. Il mangiare, tutte le altre necessità della gente comune ed i problemi del resto dell'umanità sembravano non solo non interessare, ma non sfiorarli neppure. Alla fine si salutavano con un ciao e tornavano ognuno chissà dove, ma era chiaro che la loro vera vita era soltanto quella.
A me quelle persone, il loro abbigliamento, quello che dicevano, la loro musica e soprattutto il volume a cui la ascoltavano piacevano assai poco; ma mi affascinava vederli, quello che facevano, come si muovevano. Per cercare di legittimare la mia presenza con loro, mi diedi da fare per imparare ad usare lo skate, che dava l'impressione di essere il più semplice tra i loro passatempi; ma anche questo mi risultava piuttosto faticoso, in definitiva non adatto al mio fisico. Resistetti non più di tre o quattro incontri.
“Quello che fate mi piace molto”, gli confessai, “ma decisamente non fa per me. Non ti offendi se te lo dico, vero?”
“Figurati. Non sei mica obbligato a venire. Fai quello che vuoi, e amici come prima.”
Amici più di prima, direi io. Perché comunque mi avrebbe fatto piacere avere ancora la sua silenziosa compagnia, e magari capire qualcosa di più della sua vita.
“Magari potremmo vederci qualche volta e fare qualcos'altro, che so, andare al cinema”, gli proposi.
“Non è che io vada pazzo per il cinema”, mi rispose. “Mio padre mi porta spesso dei biglietti omaggio ed io non li uso mai. Se vuoi te li posso dare, la prossima volta.”
“Dicevo il cinema così per dire. Qualcosa che non sia faticoso come lo skate o i balli rap.”
“Magari potremmo andarcene un po' per il corso la domenica pomeriggio, così giusto per dare un'occhiata in giro.”
Trovai la sua proposta strana; anche questo passatempo era fuori dal mio mondo, ma acconsentii ed attesi la domenica con curiosità.
I motivi per cui voleva andare al corso potevano essere solo due, pensai: i negozi di vestiario e di moda, quasi tutti di un certo tono e generalmente aperti anche la domenica; oppure lo “struscio”, cioè fare avanti e indietro in compagnia osservando o cercando di farsi notare da altri gruppi di giovani dell'altro sesso.
Mi sarei stupito, conoscendo il suo abbigliamento di scuola e quello da rapper di strada, entrambi anonimi nel loro genere e tutto fuorché eccentrici, che il suo interesse fosse per la moda. Pure quando lo vidi quel giorno faceva un altro effetto: era ben pettinato e rasato, con qualcosa di diverso dal solito anche nel vestire. Poteva anche dare l'impressione a qualche ragazza di essere un bel giovane, pensai.
Quel pomeriggio percorremmo avanti e indietro il corso forse per dieci volte o più, osservando i gruppi che incrociavamo, squadrandoli dalla testa ai piedi, studiando attentamente il loro aspetto ed il loro atteggiamento; talvolta scambiandoci tra noi due commenti, evidenziando i tacchi più alti, le ragazze più carine, le tenute più audaci e originali, gli sguardi ed i sorrisi che sembravano nascondere il desiderio di conoscerci, di interrogarci, di invitarci; cercando di indovinare se nei gruppi ci fossero delle coppie già formate, o in via di formazione, e quali; oppure le ragazze in cerca di un'alternativa o un'evasione, non si sa quale - chissà, magari stavano aspettando proprio uno di noi.
Per poi riprendere questi commenti e verificarli al giro successivo, osservare se qualcosa era cambiato, se gli indizi erano rimasti invariati e se valeva la pena di riscontrarli ancora la volta dopo.
Fino al giorno prima avrei definito perlomeno demenziale un simile modo di trascorrere il tempo libero. Ma quella volta, con Augusto, capii che in alcuni casi poteva avere la sua ragione d'essere. Le nostre occhiate ed i nostri sguardi indagatori, o almeno quelli di Augusto, erano in alcuni casi ricambiati; e ciò indubbiamente voleva significare che non eravamo noi ad essere invisibili, o perlomeno che non lo eravamo per tutto il mondo.
Passammo il pomeriggio in questo modo stupido, senza pensare a nulla o fare nulla, fino ad averne i piedi doloranti. Forse fu un pomeriggio sprecato della mia vita, ma sicuramente non il più triste. E quando tornai a casa quella sera, mia mamma notandomi più rilassato e sereno del solito mi chiese cosa avevo fatto e dove ero stato. Io le risposi “Niente, mamma, proprio niente di niente”, e lei mi guardò come se fosse convinta che le stessi nascondendo qualcosa.
Ed invece, quel pomeriggio al corso non avevo fatto proprio niente: davvero un bel niente.
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