Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts. Группа авторов
sul piano estetico della caotica, sporca, rumorosa vita cittadina che il Petrarca tante volte descrive e condanna, e persino come astuto stratagemma per acquisire una visibilità tutta particolare, come Agostino nel Secretum obietterà a Francesco.17 Ma, per l’appunto, il De vita solitaria ha lo scopo di conferire piena autonomia morale e ideologica a una tale fuga, che il trattato dimostra essere un valore assoluto degno in sé d’essere perseguito e realizzato. Il punto sul quale vorrei insistere è però un altro. Di là dall’arco delle varie interpretazioni che lo schema tracciato contiene a stento, la fuga nel Petrarca è un’esperienza esistenziale quasi sempre connotata in senso positivo.18 Il che è perfettamente coerente con il fatto –vado subito al punto – che, salendo di grado in grado, il massimo di libertà che l’individuo possa esercitare nel mondo consiste, come ho appena accennato, nell’esercizio attivo e fortemente voluto di una capacità di rifiuto attraverso il quale egli arriva a restituire sé a se stesso. Per questo la fuga, per piccola o episodica che sia, è sempre giusta: perché è sempre una scelta di libertà (anche nei confronti dei legami amorosi, visto che nel libro III del Secretum Agostino raccomanda in maniera sin quasi ossessiva a Francesco il rimedio della fuga), ed è insomma, a mio giudizio, una delle chiavi essenziali per comprendere il modo tutto petrarchesco di porre la questione dei rapporti con il mondo del potere in chiave non politica ma esistenziale (lasciando dunque su un piano completamente diverso quella che è stata la concreta attività diplomatico-politica da lui esercitata al servizio dei Visconti). Ma questo discorso ci trascinerebbe troppo oltre. Restiamo invece alla fuga / esilio, e osserviamo che per il Petrarca è il mondo delle cose e il mondo della storia cosí com’è fatto a imporre la fuga come l’unica arma davvero efficace per chi se ne voglia difendere. Appriamo un’altra breve parentesi. Nella splendida Prefatio al libro II del De remediis il Petrarca sviluppa con ampiezza il tema dato nelle prime righe: di tutte le cose lette o ascoltate nulla gli è rimasto piú impresso nell’animo della sentenza di Eraclito secondo la quale tutto ciò che avviene è il risultato di una lotta: «Omnia secundum litem fieri».19 Un poco grossolanamente, il mondo è in perenne guerra con se stesso, e la fatica e il dolore sono le inevitabili compagne di tutto ciò che giunge a esistere, al punto che la possibile e fragilissima felicità umana consiste nel saper usare di un unico universale ‹rimedio›: tenere il mondo a distanza, fuggirlo, trasferendo all’orizzonte cristiano le massime della morale stoica. E l’intero De remediis non fa che decostruire con pazienza l’inessenziale accumulo delle circostanze, non fa che togliere, eliminare per arrivare, ogni volta, al puro nucleo esistenziale dell’io che di per sé, nel suo elementare porsi come tale, è altra cosa da ciò che lo circonda e in infiniti modi lo minaccia, e solo ascoltandosi e restando fedele a se stesso può resistere a un tale micidiale assalto. Su questa essenziale, pervasiva arcatura morale poggiano molte delle riflessioni del Petrarca, e vi poggia l’egloga Divortium (del 1347: mette in scena il distacco del Petrarca dal vecchio padrone / protettore, il cardinal Giovanni Colonna), che applica al caso specifico una verità ben piú generale, dappertutto leggibile in trasparenza, e richiamata con particolare forza al v. 19, là dove Amiclate / Petrarca supplica il Colonna: «Permettimi una fuga giustificata, e abbi pietà di me che vi sono costretto» (iustam permitte fugam, et miserere coacti). Ma perché ‹costretto›? Dal momento che il Colonna finirà per accontentare il poeta (v. 121: I, tamen […]), dov’è piú la fuga e la coercizione? Il fatto è che il Petrarca riferisce la propria situazione personale a uno schema piú comprensivo, entro il quale è pur sempre un atto di rifiuto e di fuga a caricarsi di valori morali e a presentarsi, per questa via, come ‹obbligato›.
Ecco qualche esempio significativo. In una lettera, la Fam. 5, 14, variamente datata al 1343, 1345, 1347 e 1351, lamentandosi di non poter cacciare un vecchio servo rabbioso il Petrarca scrive: quem fugare non licet, fugiam, cioè, giocando su fugare / fuggire, «visto che non posso cacciarlo, me ne fuggirò io».20 È un caso minimo, certo, ma ecco che lo stesso gioco di parole è investito da una riflessione di tono piú serio nelle parole ammonitrici con le quali si conclude il primo libro del De vita solitaria: «Che dunque, se non ricorrere al mio solito consiglio, di fuggire dai mali che non possiamo scacciare? A ciò, l’unica salvezza e rifugio che conosco è una vita solitaria».21 E piú tardi, di nuovo, raccomandando di mettersi al riparo dai «minuti fastidî» della vita che non si riescono a evitare altrimenti: «Ama il silenzio dei boschi: occorre fuggire dalle cose che non si possono né sopportare né scacciare».22 Alla fine di novembre 1347 il Petrarca, arrivato a Genova da Avignone, scrive a Cola la famosa lettera con la quale gli dichiara d’abbandonarne la causa e di lasciarlo al suo destino, e tra altre cose scrive qualcosa che, ormai lo sappiamo, occupa una parte importante nella sua visione della vita: «Perché dovrei torturarmi? Le cose andranno cosí come l’eterna legge del destino ha stabilito: non posso cambiare il corso delle cose, ma posso fuggirle […]».23 Qui non siamo dinanzi ai ‹minuti fastidî›, ma a una situazione che impone una precisa scelta di vita e raccomanda la fuga come un vero e proprio imperativo morale: ancora nel 1356, del resto, contro i focolai di guerra che rendono insicura parte del nord-Italia, il Petrarca confessa al Nelli che non c’è miglior rimedio della fuga (quod remedii genus optimum fuga est).24 Altre occorrenze non mancano, specie nel primo libro del De vita solitaria e nei numerosi testi che esaltano quale modello di vita il ritiro valchiusano, opposto a quello della fetida e corrotta Avignone / Babilonia: vd. tra tanti Rvf 114, 1–4: «De l’empia Babilonia, ond’è fuggita/ ogni vergogna, ond’ogni bene è fori,/ albergo di dolore, madre d’errori,/ son fuggito io per allungar la vita».25 Spesso il Petrarca ripete ch’è opportuno fuggire dalla città, dal contatto con il volgo, dai fastidî della vita quotidiana: si veda come sia esaltata la laborum fuga sin nell’intitolazione di Fam. 11, 5, e addirittura positivamente equiparato l’esilio alla fuga in Fam. 21, 9, 15: «quello che chiamano esilio non è altro che una fuga da innumerevoli fastidi» (id quod exilium vocant, fugam innumerabilium curarum). Questo continuo, vario e spesso sottile ‹elogio della fuga› abilmente e sottilmente intrecciato all’‹elogio dell’esilio› che percorre le pagine del Petrarca ci fa tornare alla seconda lettera a Cicerone, Fam. 24, 4, 2, che, sopra, ha costituito uno dei punti di partenza di questo discorso, e ce lo fa meglio comprendere. Rimandandoci, per esempio, al tentativo di Cola che ha finito per rimettere all’ordine del giorno il problema dei rapporti del Petrarca con i vecchi padroni e con la curia tutt’intera, e ha creato, insieme, le condizioni di non ritorno per la fuga risolutrice che non solo taglia con una serie di compromissioni vecchie e nuove, ma pone, in alternativa, un’esigenza di libertà finalmente e chiaramente intesa all’edificazione di un autonomo ed esemplare progetto di vita. L’ultimo provvisorio soggiorno in Provenza, dal giugno 1351 al giugno 1353, è una sorta di parentesi che non sovverte questa linea, che ne riesce, semmai, confermata. Proprio nel 1352 il Petrarca, infatti, scrive al Cavalchini che unica soluzione per entrambi è quella di fuggire dalla pestifera Avignone, e nell’aprile dello stesso anno ripete che dinanzi a quella ‹spelonca di ladroni› che la curia è diventata non esiste altro rimedio che il piacere della fuga.26 E infine, sempre in quell’aprile, nella Fam. 15, 7 diretta a Stefano Colonna prevosto di Saint-Omer, passando in rassegna la situazione politica dell’Italia e dell’Europa, ripropone con efficace retorica il motivo dell’intima dialettica che corre tra costrizione e libertà:
Fa quello che fanno gli uomini puliti, e non solo gli uomini ma anche alcuni animali di pelo candido che hanno paura della sporcizia e che, uscendo dalla tana, se vedono che il terreno attorno è lordo di fango, ritraggono il piede e tornano a riparare nel loro nascondiglio. Cosí anche tu, se non trovi da alcuna parte ove avere quiete e riposo, rientra nella tua camera e torna a te stesso: veglia con te, parla e taci con te, passeggia con te, fermati con te, e stai certo che non sei solo se stai con te […].27
Potremmo anche tradurre la dicotomia tra costrizione e libertà con quella tra la storia e l’individuo, che proprio attraverso le ‹prove› alle quali è costretto ha modo d’esercitare la propria libertà e d’alimentare il mito della propria separatezza intesa come la garanzia d’una superiorità criticamente ed eticamente fondata nei confronti del proprio tempo. Una separatezza che definisce nettamente i contorni dell’io e della scena che gli appartiene e nella quale agisce, ricavando gran parte della sua consistenza drammatica e del suo fascino dall’originaria rottura, subíta e cercata