L'innocente. Gabriele D'Annunzio

L'innocente - Gabriele D'Annunzio


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e puerile, come se tutto dipendesse da quel piccolo fatto materiale che la mia volontà non bastava a produrre. E intanto qualcuno, sempre il medesimo, soffiava: «Che peccato! Che peccato! L›ora non potrebbe essere più favorevole. Nella stanza ci si vede appena. Che effetto, un singhiozzo nell›ombra!».

      – Tullio, non mi rispondi? – soggiunse Giuliana, dopo un intervallo, passandomi la mano su la fronte e su i capelli perché io alzassi la faccia. – A me tu puoi dire tutto. Lo sai.

      Ah, veramente, dopo d›allora io non ho mai più udita una voce umana di quella dolcezza. Neppure mia madre ha mai saputo parlarmi così.

      Gli occhi mi si inumidirono, e io sentii tra i cigli il tepore del pianto. «Questo, questo è il momento di prorompere.» Ma non fu se non una lacrima; e io (umiliante cosa ma pur vera; e in simili meschinità mimiche si rimpicciolisce la maggior parte delle commozioni umane nel manifestarsi) io alzai il viso perché Giuliana la scorgesse e provai per qualche attimo un›ansietà smaniosa temendo che nell›ombra ella non la scorgesse luccicare. Quasi per avvertirla, ritirai il fiato in dentro, forte, come si fa quando si vuol contenere un singhiozzo. Ed ella avvicinando il suo volto al mio per guardarmi da presso, poiché rimanevo muto, ripeté:

      – Non rispondi?

      E intravide; e, per accertarsi, mi afferrò la testa e me l›arrovesciò, con un gesto quasi brusco.

      – Piangi?

      La sua voce era mutata.

      E io mi liberai all›improvviso, mi levai per fuggire, come uno che non possa più reggere la piena dell›affanno.

      – Addio, addio. Lasciami andare, Giuliana. Addio.

      E uscii dalla stanza, a precipizio.

      Quando fui solo, ebbi disgusto di me.

      Era la vigilia d›una solennità per la convalescente. Qualche ora dopo, come mi ripresentai a lei per assistere al piccolo pranzo consueto, la ritrovai in compagnia di mia madre. Appena mi vide, mia madre esclamò:

      – Dunque domani, Tullio, giorno di festa.

      Io e Giuliana ci guardammo, ambedue ansiosi. Poi parlammo del domani, dell›ora in cui ella avrebbe potuto alzarsi, di tante minute particolarità, con un certo sforzo, un poco distratti. E io m›auguravo, dentro di me, che mia madre non si assentasse.

      Ebbi fortuna, perché una sola volta mia madre uscì e rientrò quasi sùbito. Nel frattempo, Giuliana rapidamente mi chiese:

      – Che avevi, dianzi? Non me lo vuoi dire?

      – Nulla, nulla.

      – Vedi, così tu mi guasti la festa.

      – No, no. Ti dirò… ti dirò… poi. Non ci pensare, ora; ti prego.

      – Sii buono!

      Mia madre rientrava con Maria e Natalia. Ma l›accento con cui Giuliana aveva proferito quelle poche parole bastò per convincermi che ella non sospettava la verità. Pensava ella forse che quella tristezza mi venisse da un›ombra del mio passato incancellabile e inespiabile? Pensava che io fossi torturato dal rammarico di averle fatto tanto male e dal timore di non meritare tutto il suo perdono?

      Fu ancóra una commozione viva, la mattina dopo (per compiacere il desiderio di lei aspettavo nella stanza prossima), quando mi sentii chiamare dalla sua voce squillante.

      – Tullio, vieni.

      Ed entrai; e la vidi in piedi, che sembrava più alta, più snella, quasi fragile. Vestita d›una specie di tunica ampia e fluida, a lunghe pieghe diritte, ella sorrideva, esitando, reggendosi appena, tenendo le braccia discoste dai fianchi come per cercare l›equilibrio, volgendosi ora a me ora a mia madre.

      Mia madre la guardava con una indescrivibile espressione di tenerezza, pronta a sorreggerla. Io stesso tendevo le mani, pronto a sorreggerla.

      – No, no, – ella pregò – lasciatemi, lasciatemi. Non cado. Voglio andare da me fino alla poltrona.

      Ella avanzò il piede, fece un passo, pianamente. Aveva nel viso il candore d›una gioia infantile.

      – Bada, Giuliana!

      Fece ancóra due o tre passi; poi, assalita da uno sbigottimento repentino, dal timor pànico di cadere, esitò un attimo tra me e mia madre, e si gittò nelle mie braccia, sul mio petto, abbandonandosi con tutto il suo peso, sussultando come se singhiozzasse. Ella rideva, invece, un poco soffocata dall›ansia; e, come ella non portava busto, le mie mani la sentirono tutta esile e pieghevole a traverso la stoffa, il mio petto la sentì tutta palpitante e morbida, le mie nari aspirarono il profumo dei suoi capelli, i miei occhi rividero sul suo collo il piccolo segno bruno.

      – Ho avuto paura – ella diceva interrottamente, ridendo e ansando – ho avuto paura di cadere.

      E, come ella arrovesciava la testa verso mia madre per guardarla, senza staccarsi da me, io scorsi un poco della sua gengiva esangue e il bianco degli occhi e qualche cosa di convulso in tutto il viso. E conobbi che tenevo fra le braccia una povera creatura inferma, profondamente alterata dall›infermità, con i nervi indeboliti, con le vene impoverite, forse insanabile. Ma ripensai la sua trasfigurazione in quella sera del bacio inaspettato; e l›opera di carità e d›amore e d›ammenda, a cui rinunziavo, ancóra una volta m›apparve bellissima.

      – Conducimi tu alla poltrona, Tullio – ella diceva.

      Sostenendola col mio braccio alle reni, io la condussi piano piano; l›aiutai ad adagiarsi; disposi su la spalliera i cuscini di piume, e mi ricordo che scelsi quello di tono più squisito perché ella vi appoggiasse la testa. Anche, per metterle un cuscino sotto i piedi, m›inginocchiai; e vidi la sua calza di colore gridellino, la sua pianella esigua che nascondeva poco più del pollice. Come in quella sera, ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole. E io m’indugiavo. Accostai un piccolo tavolo da tè, sopra ci posai un vaso di fiori freschi, qualche libro, una stecca d’avorio. Senza volere, mettevo in quelle mie premure un po’ di ostentazione.

      L’ironia ricominciò. «Molto abile! Molto abile! È utilissimo quel che fai, sotto gli occhi di tua madre. Come potrà ella sospettare, dopo avere assistito a queste tue tenerezze? Quel po› di ostentazione, anche, non guasta. Ella non ha la vista troppo acuta. Séguita, séguita. Tutto va a meraviglia. Coraggio!»

      – Oh come si sta bene qui! – esclamò Giuliana con un sospiro di sollievo, socchiudendo i cigli. – Grazie, Tullio.

      Qualche minuto dopo, quando mia madre uscì quando rimanemmo soli, ella ripeté, con un sentimento più profondo:

      – Grazie.

      E alzò una mano verso di me, perché io la prendessi nelle mie. Essendo ampia la manica, nel gesto il braccio si scoperse fin quasi al gomito. E quella mano bianca e fedele, che portava l›amore, e l›indulgenza, la pace, il sogno, l›oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, tremò un istante nell›aria verso di me come per l›offerta suprema.

      Credo che nell›ora della morte, nell›attimo stesso in cui cesserò di soffrire, io rivedrò quel gesto solo; fra tutte le imagini della vita passata innumerabili, rivedrò unicamente quel gesto.

      Quando ripenso, non riesco a ricostruire con esattezza la condizione nella quale mi trovai. Posso affermare che anche allora io comprendevo l›estrema gravità del momento e lo straordinario valore degli atti che si compivano ed erano per compiersi. La mia perspicacia era, o mi pareva, perfetta. Due processi di conscienza si svolgevano dentro di me, senza confondersi, bene distinti, paralleli. In uno predominava, insieme con la pietà verso la creatura che io stava per colpire, un sentimento di acuto rammarico verso l›offerta ch›io stava per respingere. Nell›altro predominava, insieme con la cupa bramosia verso l›amante lontana, un sentimento egoistico esercitato nel freddo esame delle circostanze che potevano favorire, la mia impunità. Questo parallelismo portava la mia vita interna ad una intensità e ad una accelerazione incredibili.

      Il momento decisivo era venuto. Dovendo partire al dimani, non potevo temporeggiare più oltre. Perché la cosa non sembrasse oscura e troppo subitanea, era necessario in quella mattina stessa, a colazione, annunziare


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