Decameron. Giovanni Boccaccio

Decameron - Giovanni Boccaccio


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Il quale, doloroso oltre modo questo vedendo, senza alcuna cosa dire del perché, amenduni gli fece pigliare a tre suoi servidori e a un suo castello legati menargliene; e d’ira e di cruccio fremendo andava, disposto di fargli vituperosamente morire.

      La madre della giovane, quantunque molto turbata fosse e degna reputasse la figliuola per lo suo fallo d’ogni crudel penitenza, avendo per alcuna parola di Currado compreso qual fosse l’animo suo verso i nocenti, non potendo ciò comportare, avacciandosi sopragiunse l’adirato marito e cominciollo a pregare che gli dovesse piacere di non correr furiosamente a volere nella sua vecchiezza della figliuola divenir micidiale e a bruttarsi le mani del sangue d’un suo fante, e ch’egli altra maniera trovasse a sodisfare all’ira sua, sì come di fargli imprigionare e in prigione stentare e piagnere il peccato commesso. E tanto e queste e molte altre parole gli andò dicendo la santa donna, che essa da uccidergli l’animo suo rivolse; e comandò che in diversi luoghi ciascun di loro imprigionato fosse, e quivi guardati bene e con poco cibo e con molto disagio servati infino a tanto che esso altro diliberasse di loro; e così fu fatto.

      Quale la vita loro in captività e in continue lagrime e in più lunghi digiuni, che loro non sarien bisognati, si fosse, ciascuno sel può pensare. Stando adunque Giannotto e la Spina in vita così dolente e essendovi già uno anno, senza ricordarsi Currado di loro, dimorati, avvenne che il re Piero da Raona per trattato di messer Gian di Procida l’isola di Cicilia ribellò e tolse al re Carlo; di che Currado, come ghibellino, fece gran festa.

      La quale Giannotto sentendo da alcuno di quegli che a guardia l’aveano, gittò un gran sospiro e disse: «Ahi lasso me! ché passati sono omai quattordici anni che io sono andato tapinando per lo mondo, niuna altra cosa aspettando che questa, la quale ora che venuta è, acciò che io mai d’aver ben più non speri, m’ha trovato in prigione, della qual mai se non morto uscir non spero!»

      «E come?» disse il prigioniere «che monta a te quello che i grandissimi re si facciano? che avevi tu a fare in Cicilia?»

      A cui Giannotto disse: «El pare che ’l cuor mi si schianti ricordandomi di ciò che già mio padre v’ebbe a fare: il quale, ancora che piccol fanciul fossi quando me ne fuggi’, pur mi ricorda che io nel vidi signore, vivendo il re Manfredi.»

      Seguì il prigioniere: «E chi fu tuo padre?»

      «Il mio padre» disse Giannotto «posso io omai sicuramente manifestare, poi nel pericolo mi veggio il quale io temeva scoprendolo. Egli fu chiamato e è ancora, s’el vive, Arrighetto Capece, e io non Giannotto ma Giuffredi ho nome; e non dubito punto, se io di qui fossi fuori, che tornando in Cicilia io non v’avessi ancora grandissimo luogo.»

      Il valente uomo, senza più avanti andare, come prima ebbe tempo, tutto questo raccontò a Currado. Il che Currado udendo, quantunque al prigioniere mostrasse di non curarsene, andatosene a madama Beritola piacevolemente la domandò se alcun figliuolo avesse d’Arrighetto avuto che Giuffredi avesse nome. La donna piagnendo rispose che, se il maggior de’ suoi due che avuti avea fosse vivo, così si chiamerebbe e sarebbe d’età di ventidue anni.

      Questo udendo Currado avvisò lui dovere esser desso, e caddegli nell’animo, se così fosse, che egli a una ora poteva una gran misericordia fare e la sua vergogna e quella della figliuola tor via dandola per moglie a costui; e per ciò, fattosi segretamente Giannotto venire, partitamente d’ogni sua passata vita l’esaminò; e trovando per assai manifesti indizii lui veramente esser Giuffredi figliuolo d’Arrighetto Capece, gli disse: «Giannotto, tu sai quanta e quale sia la ’ngiuria la quale tu m’hai fatta nella mia propria figliuola, là dove, trattandoti io bene e amichevolemente, secondo che servidor si dee fare, tu dovevi il mio onore e delle mie cose sempre e cercare e operare; e molti sarebbero stati quegli, a’ quali se tu quello avessi fatto che a me facesti, che vituperosamente t’avrebbero fatto morire: il che la mia pietà non sofferse. Ora, poi che così è come tu mi di’ che tu figliuol se’ di gentile uomo e di gentil donna, io voglio alle tue angosce, quando tu medesimo vogli, porre fine e trarti della miseria e della captività nella qual tu dimori, e a una ora il tuo onore e ’l mio nel suo debito luogo riducere. Come tu sai, la Spina (la quale tu con amorosa, avvegna che sconvenevole a te e a lei, amistà prendesti) è vedova, e la sua dota è grande e buona; quali sieno i suoi costumi e il padre e la madre di lei tu il sai; del tuo presente stato niente dico. Per che, quando tu vogli, io sono disposto, dove ella disonestamente amica ti fu, che ella onestamente tua moglie divenga e che in guisa di mio figliuolo qui con esso meco e con lei quanto ti piacerà dimori.»

      Aveva la prigione macerate le carni di Giannotto, ma il generoso animo dalla sua origine tratto non aveva ella in cosa alcuna diminuito né ancora lo ’ntero amore il quale egli alla sua donna portava. E quantunque egli ferventemente disiderasse quello che Currado gli offereva e sé vedesse nelle sue forze, in niuna parte piegò quello che la grandezza dell’animo suo gli mostrava di dover dire, e rispose: «Currado, né cupidità di signoria né disiderio di denari né altra cagione alcuna mi fece mai alla tua vita né alle tue cose insidie come traditor porre. Amai tua figliuola e amo e amerò sempre, per ciò che degna la reputo del mio amore; e se io seco fui meno che onestamente, secondo la oppinion de’ meccanici, quel peccato commisi il qual sempre seco tiene la giovanezza congiunto e che, se via si volesse torre, converrebbe che via si togliesse la giovanezza, e il quale, se i vecchi si volessero ricordare d’essere stati giovani e gli altrui difetti con li lor misurare e li lor con gli altrui, non saria grave come tu e molti altri fanno: e come amico, non come nemico il commisi. Quello che tu offeri di voler fare sempre il disiderai, e se io avessi creduto che conceduto mi dovesse esser suto, lungo tempo che domandato l’avrei; e tanto mi sarà ora più caro quanto di ciò la speranza è minore. Se tu non hai quello animo che le tue parole dimostrano, non mi pascere di vana speranza; fammi ritornare alla prigione e quivi quanto ti piace mi fa’ affliggere, ché tanto quanto io amerò la Spina, tanto sempre per amor di lei amerò te, che che tu mi facci, e avrotti in reverenza.»

      Currado, avendo costui udito, si maravigliò e di grande animo il tenne e il suo amore fervente reputò e più ne l’ebbe caro; e per ciò, levatosi in piè, l’abbracciò e basciò, e senza dar più indugio alla cosa comandò che quivi chetamente fosse menata la Spina. Ella era nella prigione magra e pallida divenuta e debole, e quasi un’altra femina che esser non soleva parea, e così Giannotto un altro uomo: i quali nella presenzia di Currado di pari consentimento contrassero le sponsalizie secondo la nostra usanza.

      E poi che più giorni, senza sentirsi da alcuna persona di ciò che fatto era alcuna cosa, gli ebbe di tutto ciò che bisognò loro e di piacere era fatti adagiare, parendogli tempo di farne le loro madri liete, chiamate la sua donna e la Cavriuola, così verso lor disse: «Che direste voi, madonna, se io vi facessi il vostro figliuolo maggior riavere, essendo egli marito d’una delle mie figliuole?»

      A cui la Cavriuola rispose: «Io non vi potrei di ciò altro dire se non che, se io vi potessi più esser tenuta che io non sono, tanto più vi sarei quanto voi più cara cosa, che non sono io medesima a me, mi rendereste; e rendendomela in quella guisa che voi dite, alquanto in me la mia perduta speranza rivocareste»; e lagrimando si tacque.

      Allora disse Currado alla sua donna: «E a te che ne parebbe, donna, se io così fatto genero ti donassi?»

      A cui la donna rispose: «Non che un di loro che gentili uomini sono, ma un ribaldo, quando a voi piacesse, mi piacerebbe.»

      Allora disse Currado: «Io spero infra pochi dì farvi di ciò liete femine.»

      E veggendo già nella prima forma i due giovani ritornati, onorevolemente vestitigli, domandò Giuffredi: «Che ti sarebbe caro sopra l’allegrezza la qual tu hai, se tu qui la tua madre vedessi?»

      A cui Giuffredi rispose: «Egli non mi si lascia credere che i dolori de’ suoi sventurati accidenti l’abbian tanto lasciata viva; ma, se pur fosse, sommamente mi saria caro, sì come colui che ancora, per lo suo consiglio, mi crederei gran parte del mio stato ricoverare in Cicilia.»

      Allora Currado l’una e l’altra donna quivi fece venire. Elle fecero ammendune maravigliosa festa alla nuova sposa, non poco maravigliandosi quale spirazione potesse essere stata che Currado avesse a tanta benignità recato, che Giannotto con lei avesse congiunto. Al quale madama Beritola, per le parole da Currado udite, cominciò a riguardare, e da occulta


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