Decameron. Giovanni Boccaccio
tu vedrai bene che io sono il tuo Riccardo di Chinzica.»
La donna disse: «Messere, voi mi perdonerete: forse non è egli così onesta cosa a me, come voi v’immaginate, il molto guardarvi, ma io v’ho nondimeno tanto guardato, che io conosco che io mai più non vi vidi.»
Imaginossi messer Riccardo che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua presenza confessar di conoscerlo: per che dopo alquanto chiese di grazia a Paganino che in camera solo con essolei le potesse parlare. Paganin disse che gli piacea, sì veramente che egli non la dovesse contra suo piacere basciare; e alla donna comandò che con lui in camera andasse e udisse ciò che egli volesse dire e come le piacesse gli rispondesse.
Andatisene adunque in camera la donna e messer Riccardo soli, come a sedere si furon posti, incominciò messer Riccardo a dire: «Deh, cuore del corpo mio, anima mia dolce, speranza mia, or non riconosci tu Riccardo tuo che t’ama più che se medesimo? come può questo esser? son io così trasfigurato? deh, occhio mio bello, guatami pure un poco.»
La donna incominciò a ridere e senza lasciarlo dir più disse: «Ben sapete che io non sono sì smimorata, che io non conosca che voi siete messer Riccardo di Chinzica mio marito; ma voi, mentre che io fui con voi, mostraste assai male di conoscer me, per ciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser tenuto, dovavate bene avere tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente cognoscere quello che alle giovani donne, oltre al vestire e al mangiare, benché elle per vergogna nol dicano, si richiede: il che come voi il faciavate, voi il vi sapete. E se egli v’era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovavate pigliarla; benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditor di sagre e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune e le vigilie. E dicovi che se voi aveste tante feste fatte fare a’ lavoratori che le vostre possession lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granel di grano. Sommi abbattuta a costui, che ha voluto Idio sì come pietoso raguardatore della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella quale non si sa che cosa festa sia, dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a’ servigi delle donne, cotante celebravate; né mai dentro a quello uscio entrò né sabato né venerdì né vigilia né quatro tempora né quaresima, ch’è così lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa notte sonò mattutino, so bene come il fatto andò da una volta in su. E però con lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane, e le feste e le perdonanze e’ digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi con la buona ventura sì ve n’andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace.»
Messer Riccardo, udendo queste parole, sosteneva dolore incomportabile, e disse, poi che lei tacer vide: «Deh, anima mai dolce, che parole son quelle che tu di’? or non hai tu riguardo all’onore de’ parenti tuoi e al tuo? vuoi tu innanzi star qui per bagascia di costui e in peccato mortale, che a Pisa mia moglie? Costui, quando tu gli sarai rincresciuta, con gran vitupero di te medesima ti caccerà via: io t’avrò sempre cara e sempre, ancora che io non volessi, sarai donna della casa mia. Dei tu per questo appetito disordinato e disonesto lasciar l’onor tuo e me, che t’amo più che la vita mia? Deh, speranza mia cara, non dir più così, voglitene venir con meco: io da quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò; e però, ben mio dolce, muta consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia che tu tolta mi fosti.»
A cui la donna rispose: «Del mio onore non intendo io che persona, ora che non si può, sia più di me tenera: fosserne stati i parenti miei quando mi diedero a voi! Li quali se non furono allora del mio, io non intendo d’essere al presente del loro; e se io ora sto in peccato mortaio, io starò quando che sia in imbeccato pestello: non ne siate più tenero di me. E dicovi così, che qui mi pare esser moglie di Paganino e a Pisa mi pareva esser vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per isquadri di geometria si convenieno tra voi e me congiugnere i pianeti, dove qui Paganino tutta la notte mi tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi conci Dio vel dica per me. Anche dite voi che vi sforzerete: e di che? di farla in tre pace e rizzare a mazzata? Io so che voi siete divenuto un pro’ cavaliere poscia che io non vi vidi! Andate, e sforzatevi di vivere, ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete. E ancor vi dico più: che quando costui mi lascerà, che non mi pare a ciò disposto dove io voglia stare, io non intendo per ciò di mai tornare a voi, di cui, tutto premendovi, non si farebbe uno scodellino di salsa, per ciò che con mio grandissimo danno e interesse vi stetti una volta: per che in altra parte cercherei mia civanza. Di che da capo vi dico che qui non ha festa né vigilia, laonde io intendo di starmi; e per ciò, come più tosto potete, v’andate con Dio, se non che io griderò che voi mi vogliate sforzare.»
Messer Riccardo, veggendosi a mal partito e pure allora conoscendo la sua follia d’aver moglie giovane tolta essendo spossato, dolente e tristo s’uscì della camera e disse parole assai a Paganino le quali non montavano un frullo. E ultimamente, senza alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò; e in tanta mattezza per doler cadde, che andando per Pisa, a chiunque il salutava o d’alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa rispondeva, se non: «Il mal furo non vuol festa»; e dopo non molto tempo si morì.
Il che Paganin sentendo e conoscendo l’amore che la donna gli portava, per sua legittima moglie la sposò, e senza mai guardar festa o vigilia o far quaresima, quanto le gambe ne gli poteron portare lavorarono e buon tempo si diedono. Per la qual cosa, donne mie care, mi pare che ser Bernabò disputando con Ambruogiuolo cavalcasse la capra inverso il chino.
CONCLUSIONE
Questa novella diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che niuna ve n’era a cui non dolessero le mascelle: e di pari consentimento tutte le donne dissero che Dioneo diceva vero e che Bernabò era stato una bestia. Ma poi che la novella fu finita e le risa ristate, avendo la reina riguardato che l’ora era omai tarda e che tutti avean novellato e la fine della sua signoria era venuta, secondo il cominciato ordine, trattasi la ghirlanda di capo, sopra la testa la pose di Neifile con lieto viso dicendo: – Omai, cara compagna, di questo piccol popolo il governo sia tuo —: e a seder si ripose.
Neifile del ricevuto onore un poco arrossò, e tal nel viso divenne qual fresca rosa d’aprile o di maggio in su lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi vaghi e scintillanti non altramenti che matutina stella, un poco bassi. Ma poi che l’onesto romor de’ circunstanti, nel quale il favor loro verso la reina lietamente mostravano, si fu riposato e ella ebbe ripreso l’animo, alquanto più alta che usata non era sedendo, disse: – Poi che così è che io vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per quelle che davanti a me sono state, il cui reggimento voi ubidendo commendato avete, il parer mio in poche parole vi farò manifesto, il quale se dal vostro consiglio sarà commendato, quel seguiremo. Come voi sapete, domane è venerdì e il seguente dì sabato, giorni, per le vivande le quali s’usano in quegli, alquanto tediosi alle più genti; senza che il venerdì, avendo riguardo che in esso Colui che per la nostra vita morì sostenne passione, è degno di reverenza, per che giusta cosa e molto onesta reputerei che, a onor di Dio, più tosto a orazioni che a novelle vacassimo. E il sabato appresso usanza è delle donne di lavarsi la testa, di tor via ogni polvere, ogni sucidume che per la fatica di tutta la passata settimana sopravenuta fosse; e soglion similmente assai, a reverenza della Vergine madre del Figliuolo di Dio, digiunare, e da indi in avanti per onor della sopravegnente domenica da ciascuna opera riposarsi: per che, non potendo così appieno in quel dì l’ordine da noi preso nel vivere seguitare, similmente stimo sia ben fatto quel dì delle novelle ci posiamo. Appresso, per ciò che noi qui quatro dì dimorate saremo, se noi vogliam tor via che gente nuova non ci sopravenga, reputo oportuno di mutarci di qui e andarne altrove; e il dove io ho già pensato e proveduto. Quivi quando noi saremo domenica appresso dormire adunati, avendo noi oggi avuto assai largo spazio da discorrere ragionando, sì perché più tempo da pensare avrete e sì perché sarà ancora più bello che un poco si ristringa del novellare la licenzia e che sopra uno de’ molti fatti della fortuna si dica, e ho pensato che questo sarà: di chi alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse. Sopra che ciascun pensi di dire alcuna cosa che alla brigata esser possa utile o almeno dilettevole, salvo sempre il privilegio di Dioneo.