Alla conquista di un impero. Emilio Salgari

Alla conquista di un impero - Emilio Salgari


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milio Salgari

      ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

      1. Mylord Yanez

      La cerimonia religiosa, che aveva fatto accorrere a Gauhati, una delle più importanti città dell’Assam indiano, migliaia e migliaia di devoti seguaci di Visnù, giunti da tutti i villaggi bagnati dalle sacre acque del Brahmaputra, era finita.

      La preziosa pietra di Salagraman, che altro non era che una conchiglia pietrificata, del genere dei corni d’Ammone, di color nero, ma che nel suo interno celava un capello di Visnù, il dio conservatore dell’India, era stata ricondotta nella grande pagoda di Karia, e probabilmente già nascosta in un ripostiglio noto solo al rajah, ai suoi ministri ed al grande sacerdote.

      Le vie si sfollavano rapidamente: popolo, soldati, bajadere, suonatori, s’affrettavano a far ritorno alle loro case, alle caserme, ai templi o agli alberghi, per rifocillarsi dopo tant’ore di marcia intorno alla città, seguendo il gigantesco carro che portava l’invidiato amuleto e soprattutto quel capello che tutti gli stati dell’India invidiavano al fortunato rajah dell’Assam.

      Due uomini, che spiccavano vivamente pei loro costumi assai diversi da quelli indossati dagli indiani, scendevano lentamente una delle vie centrali della popolosa città, soffermandosi di quando in quando per scambiare una parola, sopratutto quando non avevano presso di loro né popolani, né soldati.

      Uno era un bel tipo d’europeo, sulla cinquantina, colla barba brizzolata e abbondante, la pelle un po’ abbronzata, tutto vestito di flanella bianca e avente sul capo un largo feltro somigliante al sombrero messicano, con piccole ghiande d’oro intorno al nastro di seta.

      L’altro invece era un orientale, un estremo orientale, a giudicarlo dalla tinta della sua pelle, che aveva dei lontani riflessi olivastri, occhi nerissimi, brucianti, barba ancora nera e capelli lunghi e ricciuti che gli cadevano sulle spalle.

      Invece del vestito bianco, indossava una ricchissima casacca di seta verde con alamari e bottoni d’oro, portava calzoni larghi d’egual colore, stivali alti di pelle gialla colla punta rialzata come quelli degli usbeki e dalla larga fascia di seta bianca gli pendeva una magnifica scimitarra, la cui impugnatura era incrostata di diamanti e di rubini d’un valore certamente immenso.

      Splendidi tipi entrambi, alti di statura, vigorosi, capaci di tener testa da soli a venti indù.

      – Dunque, Yanez? – chiese ad un tratto l’uomo vestito di seta, fermandosi per la decima volta. – Che cos’hai deciso? I miei uomini si annoiano; tu sai che la pazienza non è mai stata il forte delle vecchie tigri di Mompracem.

      Sono otto giorni che siamo qui a guardare i templi di questa città e la corrente poco pulita del Brahmaputra. Non è così che si conquista un regno.

      – Tu hai sempre fretta – rispose l’altro. – Gli anni non riusciranno a calmare mai il sangue ardente della Tigre della Malesia?

      – Non credo – rispose il famoso pirata, sorridendo. – Ed a te non strapperanno la tua eterna calma?

      – Vorrei, mio caro Sandokan, mettere oggi stesso le mani sul trono del rajah e strappargli la corona per metterla sulla fronte della mia bella Surama, ma la cosa non mi sembra troppo facile. Fino a che qualche fortunato avvenimento non mi farà avvicinare quel prepotente monarca, noi non potremo tentare nulla.

      – Quell’avvicinamento si cerca. Si sarebbe spenta la tua fantasia?

      – Non credo, perché ho un’idea fissa nel cervello, – rispose Yanez.

      – Quale?

      – Se noi non facciamo qualche gran colpo, non entreremo giammai nelle buone grazie del rajah, il quale detesta gli stranieri.

      – Noi siamo pronti ad aiutarti. Siamo in trentacinque, con Sambigliong, e domani saranno qui anche Tremal-Naik e Kammamuri. Mi hanno telegrafato quest’oggi che lasciavano Calcutta per raggiungerci.

      Fuori l’idea. —

      Invece di rispondere, Yanez si era fermato dinanzi ad un palazzo, le cui finestre erano illuminate da panieri di filo di ferro colmi di cotone imbevuto d’olio di cocco, che fiammeggiavano crepitando.

      Dal pianterreno, che pareva servisse d’albergo, usciva un baccano indiavolato e attraverso le finestre si vedevano numerose persone che andavano e venivano affaccendate.

      – Ci siamo, – disse Yanez.

      – Dove?

      – Il primo ministro del rajah, Sua Eccellenza Kaksa Pharaum non dormirà tanto facilmente questa sera.

      – Perché?

      – Col chiasso che fanno sotto di lui. Che cattiva idea ha avuto di andare ad abitare sopra un albergo!

      Potrebbe costargli cara. —

      Sandokan lo guardò con sorpresa.

      – La tua idea partirebbe da questo albergo? – chiese.

      – Me lo saprai dire più tardi. Come ho giuocato James Brooke, che non era uno stupido, farò un brutto scherzo anche a S. E. Kaksa Pharaum. Hai fame, fratellino?

      – Una buona cena non mi dispiacerebbe.

      – Te la offro, ma tu te la mangerai da solo, – disse Yanez.

      – Tu diventi un enigma.

      – Svolgo la mia famosa idea. Tu dunque cenerai ad un’altra tavola e qualunque cosa accada non interverrai nelle mie faccende; solo quando avrai finito di cenare andrai a chiamare i nostri tigrotti e li farai passeggiare, come tranquilli cittadini che si godono la frescura notturna, sotto le finestre di S. E. il primo ministro.

      – E se ti minacciassero?

      – Tengo sotto la fascia due buone pistole a due colpi ciascuna ed in una tasca ho il mio fedele kriss. Guarda, ascolta, mangia e fingi di essere cieco e muto. —

      Ciò detto lasciò Sandokan, più che mai stupito per quelle parole oscure, ed entrò risolutamente nell’albergo, con una gravità così comica che in altre occasioni avrebbe fatto schiattare dalle risa il suo compagno, quantunque per indole non fosse mai stato troppo allegro.

      Quella trattoria non era così frequentata, come Yanez aveva creduto.

      Si componeva di tre salette, ammobiliate senza lusso, con molte tavole e molte panche ed un gran numero di servi che correvano come pazzi, portando caraffe di vino di palma e d’arak e grandi terrine ripiene di riso condito con pesci del Brahmaputra, fritti nell’olio di cocco e mescolati con erbe aromatiche.

      Assisi ai tavoli non vi erano più di due dozzine d’indiani, appartenenti però alle alte caste, a giudicarlo dalla ricchezza dei loro costumi, per lo più kaltani e ragiaputra discesi dalle alte montagne del Dalch e del Landa per chiedere qualche grazia alla preziosa conchiglia pietrificata, che celava nel suo interno il capello di Visnù.

      L’improvvisa entrata di quell’europeo pareva che avesse prodotto un pessimo effetto su tutti quegli indiani, poiché i discorsi cessarono immediatamente, e l’allegria prodotta dalle abbondanti libazioni del vino e dell’arak arracanese sfumò d’un colpo.

      Il portoghese, a cui nulla sfuggiva, attraversò le due prime sale ed entrato nell’ultima andò a sedersi ad un tavolo, che era occupato da quattro barbuti kattani che avevano nelle larghe fasce un vero arsenale fra pistole, pugnali e tarwar assai ricurvi e affilatissimi.

      Yanez li guardò bene in viso, senza degnarli d’un saluto e si sedette tranquillamente di fronte a loro, gridando con voce stentorea:

      – Da manciare! Mylord avere molta fame! —

      I quattro kaltani, ai quali non doveva piacere troppo la compagnia di quello straniero, presero le loro terrine ancora semi-piene di carri, s’alzarono di colpo e cambiarono tavola.

      – Benissimo, – mormorò il portoghese. – Tra poco vi farò o ridere o piangere. —

      Un garzone passava in quel momento, portando un piatto colmo di pesci, destinato ad altre persone.

      Si levò rapidamente e lo afferrò per un orecchio costringendolo a fermarsi. Poi gli gridò sul viso:

      – Mylord avere molta fame. Metti qui, briccone! È seconda volta che mylord grida.

      – Sahib!


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