Alla conquista di un impero. Emilio Salgari

Alla conquista di un impero - Emilio Salgari


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se io ho ricorso ad un mezzo… un po’ strano per avvicinarvi e…

      – Non sareste voi un mylord…

      – Sì, un vero mylord e primo segretario e ambasciatore segreto di S. E. il viceré, – rispose Yanez imperturbabilmente. – Domani vi mostrerò i miei documenti.

      – Potevate chiedermi una udienza, mylord. Non ve l’avrei rifiutata.

      – Il rajah non avrebbe tardato a esserne informato, mentre io per ora desidero parlare solo a voi.

      – Il governo delle Indie avrebbe qualche idea sull’Assam? – chiese Pharaum spaventato.

      – Niente affatto, tranquillizzatevi. Nessuno pensa a minacciare l’indipendenza di questo stato.

      Noi non abbiamo alcun lagno da muovere all’Assam ed al suo principe.

      Ciò però che devo dirvi non deve essere udito da alcuna persona, sicché sarebbe meglio, per maggior sicurezza, che mandaste i vostri servi a dormire.

      – Non ne saranno scontenti, tutt’altro, – disse il ministro, sforzandosi a sorridere.

      Si alzò e percosse il tam-tam che stava appeso alla parete, dietro la sua sedia.

      Un servo entrò quasi subito.

      – Che si spengano tutti i lumi, eccettuati quelli della mia stanza da notte e che tutti vadano a coricarsi – disse il ministro, con un tono da non ammettere replica. – Non voglio, per nessun motivo, essere disturbato questa notte.

      Ho da lavorare. —

      Il servo s’inchinò e scomparve.

      Kaksa Pharaum attese che il rumore dei passi si fosse spento, poi tornando a sedersi, disse a Yanez:

      – Ora, mylord, potete parlare liberamente. Tra qualche minuto tutta la mia gente russerà. —

      2. Il rapimento d’un ministro

      Yanez vuotò un bicchierone di quella pessima birra, non senza fare una smorfia, poi levò da un bellissimo portasigari di tartaruga con cifre in diamanti, due grossi manilla e ne offrì uno al ministro, dicendogli con un sorriso bonario:

      – Prendete questo sigaro, Eccellenza. Mi hanno detto che siete un fumatore, cosa piuttosto rara fra gl’indiani, che preferiscono invece quel detestabile betel che rovina i denti e guasta la bocca. Sono certo che non avete mai fumato un sigaro così delizioso.

      – Ho imparato a fumare a Calcutta, dove ho soggiornato qualche tempo in qualità d’ambasciatore straordinario del mio re, – disse il ministro, prendendo il manilla.

      Yanez gli porse uno zolfanello, accese anche il proprio sigaro, gettò in aria tre o quattro boccate di fumo odoroso, che per qualche istante offuscarono la luce della lampada, poi riprese, fissando con una certa malizia il ministro, che assaporava da buongustaio il delizioso aroma del tabacco filippino:

      – Io sono qui venuto, come vi dissi, Eccellenza, per incarico del viceré del Bengala per avere da voi delle informazioni sui moti che si stanno svolgendo nell’alta Birmania.

      Voi che siete confinanti con quel turbolento regno, che ci ha sempre dato dei gravi fastidi, ne saprete certo qualche cosa.

      Vi avverto innanzi a tutto, Eccellenza, che il governo delle Indie vi sarà non solo gratissimo, ma che anche vi ricompenserà largamente. —

      Udendo parlare di ricompense, il ministro, venale come tutti i suoi compatriotti, spalancò gli occhi ed ebbe un risolino di contentezza.

      – Ne sappiamo più di quello che potreste supporre, – disse poi. – È vero: nell’alta Birmania è scoppiata una violentissima insurrezione, promossa a quanto pare da un intraprendente talapoino, che ha gettato la tonaca gialla del monaco per impugnare la scimitarra.

      – E contro chi?

      – Contro il re Phibau e sopratutto contro la regina Su-payah-Lat che ha fatto strangolare, il mese scorso, le due giovani mogli del monarca, una delle quali era stata scelta fra le principesse dell’alta Birmania.

      – Che storia mi raccontate voi?

      – Ve la spiegherò meglio, mylord, – disse il ministro, socchiudendo gli occhi.

      Secondo le leggi birmane, il re può avere quattro mogli; però il suo successore è obbligato a sposare la propria sorella o per lo meno una principessa sua parente, affinché si conservi puro il sangue reale.

      Quando Phibau, che è il monarca attuale, salì al trono, c’erano nella sua famiglia due sorelle degne di salire al trono del fratello.

      Il re sentiva maggior inclinazione per la maggiore; ma la più giovane, la principessa Su-payah-Lat si era messa in testa di diventare anch’essa regina, per ciò fece mostra dappertutto del più ardente affetto pel sovrano e seppe così indurre la regina madre a decidere, nella sua alta sapienza, che quell’amore meritava di essere ricompensato e che il figlio doveva sposarle entrambe.

      Il disegno però fu sventato dalla maggiore delle sorelle, la principessa Ta-bin-deing, la quale aveva preferito entrare in un monastero buddista.

      È chiaro tutto ciò?

      – Chiarissimo, – rispose Yanez, che trovava un ben scarso interesse in quel racconto. – E poi, Eccellenza?

      – Phibau allora sposò Su-payah-Lat e altre due principesse, una delle quali apparteneva all’alta classe della Birmania settentrionale.

      – E per dispetto le fece strangolare?

      – Sì, mylord.

      – E dopo che cosa è successo? Un nuovo strangolamento, da parte del re questa volta?

      – Niente affatto. Su-payah-pa… pa…

      – Avanti, Eccellenza, – disse Yanez, guardandolo malignamente.

      – Dov’ero… rimasto? – chiese il ministro, che pareva facesse degli sforzi supremi per tenere aperti gli occhi.

      – Al terzo strangolamento.

      – Ah sì! Su-payah-pa… pa… pa… è chiaro?

      – Chiarissimo. Ho capito tutto.

      – Pa… pa… un figlio… gli astrologi di corte… mi capite bene, mylord?

      – Benissimo.

      – Poi strangolò le due regine…

      – Lo so.

      – E Su… pa…

      – Mi pare che diventi terribile quel pa… pa… per la vostra lingua. Per Giove! Avreste bevuto troppo questa sera? —

      Il ministro, che per la ventesima volta aveva chiusi e riaperti gli occhi, guardò Yanez come trasognato, poi si lasciò sfuggire dalle labbra il sigaro e tutto d’un colpo s’abbandonò prima sullo schienale della sedia, poi rotolò a terra come se fosse stato colpito da sincope.

      – Briccone d’un sigaro! – esclamò Yanez, ridendo. – Quell’oppio doveva essere di prima qualità. Ed ora, all’opera, giacché tutti dormono. Ah! Tu credevi, Sandokan, che la mia fantasia si fosse spenta? Vedrai. —

      Raccolse innanzi a tutto il sigaro, che il ministro aveva lasciato cadere e s’accostò alla finestra che era aperta.

      Quantunque non brillasse più alcun lume, essendo gl’indiani molto economici in fatto d’illuminazione, anche perché le notti colà sono chiare ed il cielo quasi sempre purissimo, scorse subito parecchie persone che passeggiavano lentamente, a gruppi di tre o quattro, come onesti cittadini che si godono un po’ di frescura, fumando e cianciando.

      – Sandokan ed i tigrotti, – mormorò Yanez, stropicciandosi le palme. – Tutto va benissimo. —

      Gettò via il mozzicone di sigaro lasciato cadere dal ministro, accostò alle labbra due dita e mandò un sibilo dolcemente modulato.

      Udendolo, le persone che passeggiavano s’arrestarono di colpo, poi, mentre alcune si dirigevano verso le due estremità


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