Capitan Tempesta. Emilio Salgari

Capitan Tempesta - Emilio Salgari


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nonostante le prudenti raccomandazioni del suo tenente, s’era spinto fino sull’orlo del bastione, tenendosi riparato dietro un merlo semimozzo che ad ogni colpo di colubrina a poco a poco si sgretolava.

      Nella pianura tenebrosa che si estendeva dinanzi alla disgraziata città, votata ormai ad una fine miseranda, si vedevano brillare qua e là dei punti luminosi, poi dei lampi accompagnati da formidabili detonazioni, e dai sibili rauchi delle grosse palle di pietra.

      I turchi, sempre più inferociti dalla lunga resistenza opposta dalla piccola guarnigione veneta, stavano scavando nuove trincee per assalire più da vicino il bastione, che quantunque semidiroccato, non accennava ancora a sfasciarsi mercè l’enorme massa di materiali che le valorose donne rovesciavano ogni notte nei fossati per rinforzarlo.

      Di tratto in tratto degli uomini audaci, che avevano fatto volontariamente sacrificio della loro vita per guadagnarsi con maggior sicurezza il meraviglioso paradiso del Profeta, salivano carponi la scarpa del bastione e, approfittando della notte tenebrosa, preparavano mine per rovesciare quella massiccia muraglia che i cannoni non erano capaci di sfondare.

      Gli schiavoni, che avevano buoni occhi, non li risparmiavano e molti ne fulminavano coi loro moschettoni, ma altri fanatici, punto atterriti, li sostituivano subito e delle esplosioni tremende, che scuotevano perfino le colubrine piazzate dietro i pochi merli, si succedevano, diroccando ora un angolo ed ora uno sperone od il margine del profondo fossato.

      Le donne di Famagosta però erano là, pronte a gettare sassi e corbe colme di terra, onde riempire le buche aperte da quegli scoppi; sempre impassibili, sempre risolute, docili al comando dei prodi difensori, guardando serenamente le palle infuocate che solcavano l’aria e che nel cadere si spezzavano in mille frantumi, essendo per la maggior parte di pietra.

      Capitan Tempesta, muto, impassibile, guardava i fuochi che illuminavano l’immenso campo turco. Che cosa cercava di scoprire? Lui solo probabilmente lo sapeva.

      Ad un tratto si sentì urtare un gomito, mentre una voce gli sussurrava agli orecchi, in un pessimo dialetto napoletano:

      – Eccomi, padrona.

      Il giovane si era voltato vivamente, colla fronte aggrottata, poi ad un tratto un grido a malapena frenato gli sfuggì:

      – Tu, El-Kadur?

      – Sì, padrona.

      – Taci! Non chiamarmi così. Nessuno deve sapere chi io veramente sia.

      – Hai ragione, signora… signore.

      – Ancora? Vieni!

      Afferrò l’uomo che aveva pronunciato quelle parole, e lo trasse, tenendolo sempre stretto per un braccio, giù dal bastione conducendolo in una casamatta, che era illuminata da una torcia e che in quel momento era deserta.

      Quell’individuo, che il giovine capitano non aveva ancora lasciato, era un uomo alto e magrissimo, colla pelle assai abbronzata, i lineamenti duri, il naso affilato e gli occhi piccoli e nerissimi. Vestiva come i beduini dei deserti arabi, teneva sulle spalle un ampio mantello di lana oscura, con cappuccio adorno d’un fiocco rosso e sul capo portava un turbante bianco e verde. Dalla cintura o meglio dalla fascia rossa, che gli stringeva i fianchi, si vedevano uscire i calci di due lunghe pistole, di forma quasi quadra, come quelle usate dagli algerini e dai marocchini, e l’impugnatura d’un jatagan.

      – Dunque? – chiese Capitan Tempesta, quasi con violenza, mentre i suoi occhi s’illuminavano d’un lampo strano.

      – Il visconte Le Hussière è sempre vivo rispose El-Kadur. – L’ho saputo da uno dei capitani del vizir.

      – Che ti abbia ingannato? chiese il giovane capitano, con voce tremula.

      – No, signora.

      – Non chiamarmi signora, te lo dissi già.

      – Qui non vi è nessuno che possa ascoltarci.

      – E dove l’hanno condotto? Lo sai, El-Kadur?

      L’arabo fece un gesto desolato.

      – No, signora, non ho ancora potuto saperlo; tuttavia non dispero. Sono diventato l’amico d’un comandante che, quantunque mussulmano, beve Cipro a barili, infischiandosene del Corano e del Profeta, e una sera od un’altra riuscirò a carpirgli il segreto. Ve lo giuro, padrona.

      Capitan Tempesta o meglio la capitana – giacchè non era un uomo – si era lasciata cadere sull’affusto d’un cannone, prendendosi la testa fra le mani. Due lagrime le scendevano sul suo bel viso, che in quel momento era diventato pallidissimo.

      L’arabo, ritto dinanzi a lei, col mantello stretto intorno all’agile corpo, la guardava con profonda commozione. Il suo viso duro e selvaggio tradiva un’angoscia inesprimibile.

      – Potessi, signora, col mio sangue ridarti la tranquillità e la felicità, sarei ben lieto disse, dopo un momento di silenzio.

      – Lo so che tu mi sei devoto, El-Kadur – rispose Capitan Tempesta.

      – Fino alla morte, signora, sarò lo schiavo più fedele.

      – Non schiavo, amico.

      Gli occhi nerissimi dell’arabo si illuminarono d’un lampo intenso, diventando quasi fosforescenti.

      – Io ho rinnegato senza rimpianti la mia stolta religione, disse, dopo un altro breve silenzio – e non ho mai dimenticato che il duca d’Eboli, tuo padre, mi strappò, quand’ero fanciullo, al mio crudele padrone che tutti i giorni mi batteva a sangue. Che cosa devo fare ora?

      Capitan Tempesta non rispose. Pareva che seguisse un pensiero profondo che evocava in lui dei dolorosi ricordi, a giudicarlo dall’espressione angosciosa del suo bel viso.

      – Sarebbe stato meglio che io non avessi mai veduta Venezia, quella sirena incantatrice dell’Adriatico e che non avessi mai lasciate le azzurre acque del golfo di Napoli… disse ad un tratto, come parlando fra sè. – Il mio cuore non soffrirebbe ora così atrocemente.

      Ah quella notte deliziosa sul Canal Grande, fra i marmorei palazzi dei nobili veneti! La rivedo come fosse ieri, e quando vi penso sento scorrermi nelle vene un fremito che prima non avevo mai provato.

      Egli era là, dinanzi a me, bello come un dio della guerra, seduto sulla prora della gondola e mi guardava sorridendo e mi rivolgeva delle frasi deliziose, che mi scendevano in fondo al cuore come una musica celeste. Per me aveva dimenticato le preoccupazioni che in tutti suscitavano le tragiche notizie giuntemi quel giorno e che avevano fatto impallidire perfino i vecchi del Senato, del Consiglio e lo stesso Doge.

      Eppure sapeva che l’avevano scelto a venire qui a misurarsi coll’esercito sterminato degli infedeli; sapeva che qui forse la morte lo attendeva per falciargli la sua giovine e brillante esistenza, eppur sorrideva, ammaliato dai miei occhi.

      Che cosa ne faranno di lui questi mostri? Lo faranno morire lentamente fra i più atroci martirî? È impossibile che lo tengano solamente prigioniero: egli che era diventato il terrore dei pascià, egli che aveva inflitto tante sanguinose sconfitte a queste orde barbariche, a questi lupi sbucati dai deserti dell’Arabia.

      Povero e valoroso Le Hussière!

      – L’ami molto dunque? disse l’arabo che l’aveva ascoltata in silenzio, senza staccarle di dosso gli occhi.

      – Se l’amo! – esclamò la giovane duchessa, con voce appassionata. – Amo come le donne del tuo paese.

      – Forse di più ancora, signora – rispose El-Kadur, soffocando un nuovo sospiro. – Un’altra donna non avrebbe fatto quello che facesti tu, non avrebbe lasciato il bel palazzo di Napoli, non si sarebbe vestita da uomo, non avrebbe assoldato coi propri denari una compagnia e non sarebbe venuta qui a rinchiudersi in questa città assediata da centomila infedeli, a sfidarvi la morte.

      – Potevo io restare tranquilla in patria, quando io sapevo che egli era qui e che correva un così grave pericolo?

      – E non pensi, signora, che un giorno i turchi riusciranno a superare i bastioni e che si rovesceranno sulla città assetati di sangue e di stragi? Chi ti salverà quel giorno?

      – Siamo


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