I Pirati della Malesia. Emilio Salgari

I Pirati della Malesia - Emilio Salgari


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di Sarawak verso nord. Sandokan, che temeva di trovarsi da un istante all’altro dinanzi alla flottiglia di James Brooke, fece caricare i cannoni, nascondere due terzi dell’equipaggio; quindi innalzò la bandiera olandese. Dopo di che, mise la prua al capo Tanjong-Datu, che ad occidente chiude la baia, in vicinanza del quale doveva passare l’Helgoland proveniente dall’India. Verso il mezzodì dello stesso giorno, tra la generale sorpresa, la Perla di Labuan si imbatteva nella cannoniera olandese che tre giorni prima aveva incontrato nelle acque dell’isola Whale. Sandokan, nel vederla, lasciò andare un violento pugno sulla murata. – Ancora la cannoniera! – esclamò, aggrottando la fronte e mostrando i denti, bianchi e aguzzi come quelli di una tigre. – Tu vuoi che io faccia bere del sangue ai miei tigrotti.

      – Ci spia, Sandokan – disse Yanez.

      – Ma io la colerò a picco.

      – Non lo farai, Sandokan. Un colpo di cannone può essere udito dalla flotta di Brooke.

      – Io me ne rido della flotta del rajah.

      – Sii prudente, Sandokan.

      – Sarò prudente, giacché lo vuoi, ma vedrai che quella cannoniera ci tenderà un agguato alla foce del Sarawak.

      – Non sei la Tigre della Malesia, tu?

      – Sì, ma abbiamo la vergine della pagoda a bordo. Una palla potrebbe colpirla.

      – Coi nostri petti le faremo scudo.

      La cannoniera olandese era giunta a duecento metri dalla Perla di Labuan. Sul suo ponte si vedevano il capitano, munito di un cannocchiale e, affollati a prua, una trentina di marinai armati di carabine. A poppa alcuni artiglieri circondavano un grosso cannone.

      Girò due volte attorno al praho descrivendo un grandissimo semicerchio, poi virò di bordo mettendo la prua a sud, verso Sarawak.

      La sua velocità era tale che in tre quarti d’ora non si scorgeva più che un sottile pennacchio di fumo. – Dannazione! – esclamò Sandokan. – Se mi torni a tiro ti mando a picco con una sola bordata. La Tigre, anche se non è di cattivo umore, non si lascia avvicinare tre volte impunemente.

      – La ritroveremo a Sarawak – disse Yanez.

      – Lo spero, ma…

      Un grido che veniva dall’alto lo interruppe bruscamente.

      – Eh! Uno steamer all’orizzonte! – aveva gridato un pirata che si teneva a cavalcioni del gran pennone di maestra.

      – Un incrociatore, forse! – esclamò Sandokan il cui sguardo si accese.

      – Da dove viene?

      – Dal nord – rispose il gabbiere.

      – Lo vedi bene?

      – Non scorgo che il fumo e l’estremità dei suoi alberi.

      – Se fosse l’Helgoland! – esclamò Yanez.

      – È impossibile! Verrebbe dall’occidente, non già dal nord.

      – Può aver toccato Labuan.

      – Kammamuri! – gridò la Tigre.

      Il maharatto, che si era issato sul coronamento di poppa, si slanciò giù correndo verso il pirata.

      – Conosci l’Helgoland? – chiese la Tigre.

      – Sì, padrone.

      – Ebbene, seguimi!

      Si slanciarono verso i paterazzi, s’inerpicarono fino alla estremità dell’albero di maestra e fissarono i loro sguardi sulla verdastra superficie del mare.

      7. L’Helgoland

      All’orizzonte, là dove il cielo si confondeva con l’oceano, era quasi improvvisamente apparso un vascello a tre alberi che, quantunque ancora assai lontano, s’indovinava essere di grandi dimensioni. Dal fumaiolo usciva una striscia di fumo nero che il vento portava assai lontano. La sua mole, la sua struttura, i suoi alberi rivelavano subito che quella nave apparteneva alla categoria dei vascelli da guerra.

      – Lo scorgi, Kammamuri? – chiese Sandokan, che fissava il piroscafo con estrema attenzione, come se volesse riconoscere la bandiera che sventolava sul picco della randa.

      – Sì – rispose il maharatto.

      – Lo conosci?

      – Aspettate un poco, padrona

      – È l’Helgoland?

      – Aspettate… mi pare… sì, sì, è l’Helgoland!

      – Non t’inganni?

      – No, Tigre, non m’inganno. Ecco la sua prua tagliata ad angolo retto, ecco là i suoi alberi tutti d’un pezzo, ecco i suoi dodici sabordi. Sì, Tigre, sì, è l’Helgoland!

      Un lampo sinistro guizzò negli occhi della Tigre della Malesia.

      – Là v’è lavoro per tutti! – esclamò il pirata.

      Si aggrappò ad una sartia e si lasciò scivolare fino al ponte. I suoi pirati, che avevano brandite le armi, gli corsero attorno interrogandolo con lo sguardo.

      – Yanez! – chiamò.

      – Eccomi, fratello – rispose il portoghese, accorrendo da poppa.

      – Prendi sei uomini, scendi nella stiva e sfonda i fianchi del praho.

      – Che? Sfondare i fianchi del praho? Sei matto?

      – Ho il mio piano. L’equipaggio del vascello udrà le nostre grida, accorrerà e ci accoglierà come naufraghi. Tu sarai un ambasciatore portoghese in rotta per Sarawak e noi la tua scorta.

      – Ebbene?

      – Ebbene una volta sul vascello, non sarà difficile per uomini come noi impadronircene. Spicciati: l’Helgoland si avanza.

      – Fratello, sei davvero un grand’uomo! – esclamò il portoghese.

      Fece armare dieci uomini e discese nella stiva ingombra di armi, di barilotti di polvere, di palle e di vecchi cannoni che servivano quale zavorra. Cinque uomini si misero a babordo e gli altri cinque a tribordo, con le scuri in mano.

      – Animo, ragazzi – disse il portoghese. – Picchiate sodo, ma che le falle non siano troppo grandi. Bisogna affondare lentamente per non farsi mangiare dai pesci-cani.

      I dieci uomini si misero a picchiare contro i bordi della nave che erano solidi come fossero di ferro. Dieci minuti dopo, due enormi getti d’acqua si precipitavano fischiando nella stiva, dirigendosi verso poppa.

      Il portoghese ed i dieci pirati si slanciarono in coperta.

      – Affondiamo – disse Yanez. – Saldi in gambe, ragazzi, e nascondete le pistole e i kriss sotto le casacche. Domani ne avremo bisogno.

      – Kammamuri – gridò Sandokan, – conduci la tua padrona sul ponte.

      – Dovremo saltare in mare, capitano? – chiese il maharatto.

      – Non c’è bisogno. Se però sarà necessario, m’incarico io di portare la giovanetta.

      Il maharatto si precipitò sotto coperta, afferrò fra le robuste braccia la sua padrona, senza che ella opponesse la minima resistenza, e la portò sul ponte.

      Il piroscafo era lontano un buon miglio, ma si avanzava colla velocità di quattordici o quindici nodi all’ora. Fra pochi minuti doveva trovarsi sulle acque del praho.

      La Tigre della Malesia si avvicinò ad un cannone e vi diede fuoco.

      La detonazione fu portata dal vento fino al vascello, il quale mise subito la prua verso il praho.

      – Aiuto! a noi! – urlò la Tigre.

      – Aiuto! aiuto!

      – Affondiamo!

      – A noi! a noi! – gridarono i pirati.

      Il praho, inclinato a tribordo, affondava lentamente, traballando come fosse ubriaco. Già nella stiva si


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