I Vicere. Federico De Roberto

I Vicere - Federico De Roberto


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non al Priore!… A te, Filippo: passa da donna Ferdinanda… Donna Vincenza? Dov’è donna Vincenza?… Prendete lo scialle e andate alla badia… parlate alla Madre Badessa perché prepari la monaca alla notizia… Un momento! Salite prima dalla principessa che ha da parlarvi… Salemi?… Giuseppe, ordine di lasciar passare i soli stretti parenti… È venuto Salemi?… Lasciate ogni cosa; il principe e il signor Marco v’aspettano lassù, che c’è bisogno d’aiuto. Natale, tu andrai da donna Graziella e dalla duchessa. Agostino, questi dispacci al telegrafo… e passa dal sarto…»

      Secondo che ricevevano le commissioni, i servi uscivano, aprendosi la via in mezzo alla folla; passavano con l’aria affrettata di altrettanti aiutanti di campo tra i curiosi che annunziavano: «Vanno ad avvertire i parenti… i figli, i cognati, i nipoti, i cugini della morta…» Tutta la nobiltà sarebbe stata in lutto, tutti i portoni dei palazzi signorili, a quell’ora, si chiudevano o si socchiudevano, secondo il grado della parentela. E l’ebanista la spiegava:

      «Sette figliuoli, possiamo contarli: il principe Giacomo e la signorina Lucrezia che è in casa con lui: due; il Priore di San Nicola e la monaca di San Placido: quattro; donna Chiara, maritata col marchese di Villardita: e cinque; il cavaliere Ferdinando che sta alla Pietra dell’Ovo: sei; e finalmente il contino Raimondo che ha la figlia del barone Palmi… Poi vengono i cognati, i quattro cognati: il duca d’Oragua, fratello del principe morto; Padre don Blasco, anch’egli monaco benedettino; il cavaliere don Eugenio e donna Ferdinanda la zitellona…»

      Ogni volta che lo sportello si schiudeva per dar passaggio a qualche servo, i curiosi cercavano di guardare dentro il cortile; Giuseppe, spazientito, esclamava:

      «Via di qua! Che diavolo volete? Aspettate i numeri del lotto?»

      Ma la folla non si moveva, guardava per aria le finestre ora chiuse quasi aspettando l’apparizione della stampiglia coi numeri.

      E la notizia correva di bocca in bocca come quella d’un pubblico avvenimento: «È morta donna Teresa Uzeda…» i popolani pronunziavano Auzeda, «la principessa di Francalanza… È morta stamani all’alba… C’era il principe suo figlio… No, è partito da un’ora.» L’ebanista frattanto, in mezzo a un cerchio di gente attenta come alla storia dei Reali di Francia, continuava a enumerare il resto della parentela: il duca don Mario Radalì, il pazzo, che aveva due figli maschi, Michele e Giovannino, da donna Caterina Bonello, e apparteneva al ramo collaterale dei Radalì-Uzeda; la signora donna Graziella, figlia d’una defunta sorella della principessa e moglie del cavaliere Carvano, cugina carnale perciò di tutti i figliuoli della morta; il barone Grazzeri, zio della principessa nuora, con tutta la parentela; e poi i parenti più lontani, gli affini, quasi tutta la nobiltà paesana: i Costante, i Raimonti, i Cùrcuma, i Cugnò… A un tratto s’interruppe per dire:

      «To’! Guardate i lavapiatti che arrivano prima di tutti!»

      Don Mariano Grispo e don Giacinto Costantino arrivavano, come ogni giorno all’ora della colazione, per far la corte al principe, e non sapevano niente: scorgendo la folla ed il portone chiuso, si fermarono di botto:

      «Santa fede!… Buon Dio d’amore!…»

      E a un tratto affrettarono il passo, entrarono interrogando costernati il portinaio che dava le prime notizie: «Non mi sembra vero!… Un fulmine a ciel sereno!…» Poi salirono per lo scalone con Baldassarre che risaliva anch’egli in quel punto dalla corte e faceva loro strada mormorando:

      «Povera principessa!… Non poté superarla!… Il signor principe è subito partito.»

      Traversando la fila delle anticamere dagli usci dorati ma quasi nude di mobili, don Giacinto esclamava a bassa voce, come in chiesa:

      «È una gran disgrazia!… Per questa famiglia è una disgrazia più grande che non sarebbe per ogni altra…»

      E piano anch’egli, don Mariano confermava, scrollando il capo:

      «La testa che guidava tutti, che aggiustò la pericolante baracca!…»

      Introdotti nella Sala Gialla, si fermarono dopo qualche passo, non distinguendo nulla pel buio; ma la voce della principessa Margherita li guidò:

      «Don Mariano!… Don Giacinto!…»

      «Principessa!… Signora mia!… Com’è stato?… E Lucrezia?… Consalvo?… La bambina?…»

      Il principino, seduto sopra uno sgabello, con le gambe penzoloni, le dondolava ritmicamente, guardando per aria a bocca aperta; discosta, in un angolo di divano, Lucrezia stava ingrottata, con gli occhi asciutti.

      «Ma com’è avvenuto, così a un tratto?» insisteva don Mariano.

      E la principessa, aprendo le braccia:

      «Non so… non capisco… È arrivato Salvatore dal Belvedere, con un biglietto del signor Marco… Lì, su quella tavola, guardate… Giacomino è partito subito.» A bassa voce, rivolta a don Mariano, intanto che l’altro leggeva il biglietto: «Lucrezia voleva andare anche lei,» aggiunse, «suo fratello ha detto di no… Che ci avrebbe fatto?»

      «Confusione di più!… Il principe ha avuto ragione…»

      «Niente!» annunziava frattanto don Giacinto, finito di leggere il biglietto. «Non spiega niente!… E hanno avvertito gli altri… hanno dispacciato?…»

      «Io non so… Baldassarre…»

      «Morire così, sola sola, senza un figlio, un parente!» esclamava don Mariano, non potendo darsi pace; ma don Giacinto:

      «La colpa non è di questi qui, poveretti!… Essi hanno la coscienza tranquilla.»

      «Se ci avesse voluti…» cominciò la principessa, timidamente, più piano di prima; ma poi, quasi impaurita, non finì la frase.

      Don Mariano tirò un sospiro doloroso e andò a mettersi vicino alla signorina.

      «Povera Lucrezia! Che disgrazia!… Avete ragione!… Ma fatevi animo!… Coraggio!…»

      Ella che se ne stava a guardare per terra, battendo un piede, levò la testa con aria di stupore, quasi non comprendendo. Ma, come udivasi un frastuono di carrozze che entravano nel cortile, don Mariano e don Giacinto tornarono ad esclamare, a due:

      «Che sciagura irreparabile!»

      Arrivavano la marchesa Chiara col marito e la cugina Graziella:

      «Lucrezia, la mamma!… Sorella!… Cugina!…»

      Subito dopo entrò la zia Ferdinanda, a cui le donne baciarono le mani, mormorando:

      «Eccellenza!… Ha sentito?…»

      La zitellona, asciutta asciutta, scrollava il capo; Chiara abbracciava Lucrezia piangendo; il marchese salutava mestamente i lavapiatti; ma la più commossa era donna Graziella: «Non mi par vero!… Non volevo crederci!… Che si muore così?… E il povero Giacomo? Dice che è corso subito lassù?… Povero cugino!… Se almeno avesse potuto arrivare a chiuderle gli occhi!… Che dolore, non aver tempo di rivederla!…»

      Udendo Chiara singhiozzare in seno alla sorella Lucrezia, esclamò: «Hai ragione, sfogati, poveretta! Mamma ce n’è una sola!…»

      Ella pareva tanto addolorata della disgrazia dei cugini da dimenticare perfino che la morta era sorella della sua propria madre. Si profferiva alla principessa; le diceva, traendola in disparte:

      «Hai bisogno di nulla?… Vuoi che ti dia una mano?… Come sta la mia figlioccia?… Che ha lasciato detto il cugino?…»

      «Non so… Ha ordinato a Baldassarre il da fare…»

      Baldassarre, infatti, andava su e giù, mandando ancora messi, ricevendo quelli che tornavano dall’aver eseguito le ambasciate. Tutti i parenti, ormai, erano avvertiti: soltanto il famiglio mandato ai Benedettini venne a dire che Padre don Lodovico stava per arrivare, ma che Padre don Blasco non era nel convento.

      «Va’ dalla Sigaraia… a quest’ora sarà da lei… Corri, digli che è morta sua cognata…»

      Don Lodovico arrivò con la carrozza di San Nicola; e nella Sala Gialla tutti s’alzarono all’apparire


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