Il Bramino dell'Assam. Emilio Salgari

Il Bramino dell'Assam - Emilio Salgari


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che quell’alcolizzato sparava senza contare». «Tu!…» esclamò Surama con viva emozione. «Sì, signora, perché allora ero un valletto del rajah».

      «Narraci quella scena spaventosa» disse Yanez. «La conosco, ma preferisco udirla dalle tue labbra».

      «Il rajah si era fitto in testa che tutti i suoi parenti si fossero collegati per strappargli il potere. L’aveva specialmente con suo fratello, il Sindhia che non è diventato migliore, e con un suo zio che era capo di una tribù di kotteri, ossia di guerrieri, uomo valoroso fra i valorosi, che più volte aveva difese le frontiere dello stato contro le scorrerie dei birmani, infliggendo a quei popoli semiselvaggi, tremende sconfitte. Perciò godeva una grande popolarità in tutto l’Assam, e ciò dava ombra al rajah». «Si chiamava Mahur, è vero?» disse la reginetta con un sordo singhiozzo. «Sì» rispose il cacciatore di topi. «Era mio padre». «L’ho saputo». «Continua» disse Yanez.

      «Era piombata sull’Assam una grande carestia dovuta ad una estrema siccità. Per mesi e mesi non una goccia era caduta, ed il sole tutto bruciava nelle campagne. I bramini ed i gurus (sacerdoti di Siva), consigliarono il rajah di organizzare delle grandiose feste religiose per placare l’ira degli dèi. Il pazzo non aspettava che una occasione per distruggere tutti i suoi parenti. Feste magnifiche furono date che il popolo deve ricordare ancora non meno di me, poi nel gran cortile di questo palazzo fu preparato un gran banchetto al quale erano stati invitati tutti i parenti del rajah, che vivevano disseminati nelle varie province dello stato. Il primo a giungere fu l’eroe delle frontiere birmane, il quale giunse colla propria moglie, due figli maschi ed una bambina». «Ero io» disse Surama, nelle cui pupille passò un lampo umido.

      «Tutti i parenti erano stati ricevuti con grandi onori e con gran cordialità ed alloggiati qui. Ve lo ricordate, signora?» «Sì» rispose Surama.

      «Il banchetto offerto a tutti i parenti stava per finire, quando il rajah, che aveva bevuto una enorme quantità di liquori, scomparve coi suoi ministri per apparire poco dopo su un terrazzino, armato di carabina. Echeggiò un colpo ed il capo dei kotteri fu il primo a cadere colla testa attraversata da una palla. Lo stupore, causato dall’assassinio, che per tutti i banchettanti riusciva inesplicabile, non era ancora cessato, quando un secondo colpo rintronava, ed un altro convitato stramazzava addosso alla tavola, bruttando la tovaglia di sangue e di materia cerebrale. Il rajah pareva un demonio. Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite e fiammeggianti come quelli d’una pantera, i lineamenti spaventosamente sconvolti, e sghignazzava, l’assassino. Intorno, i suoi ministri erano pronti a porgergli altre carabine ed a versargli altri liquori per maggiormente eccitarlo. I disgraziati banchettanti, uomini, donne e fanciulli, si erano messi a correre pel cortile, cercando invano una uscita, mentre il rajah, urlando come una belva od un pazzo, continuava a sparare facendo nuove vittime. La strage durò mezz’ora: due soli erano miracolosamente scampati all’eccidio, il fratello del rajah e la vostra signora. Trentasette erano i parenti del principe, e ben trentacinque caddero per non più rialzarsi, e vi erano donne e bambini».

      «Oh!… Come mi ricordo quella tragica scena» disse Surama. «Quel giorno perdei il padre, la madre e due fratelli». «E poi?» chiese Yanez.

      «Sindhia, il giovane fratello del rajah, era stato fatto segno a tre colpi di carabina andati tutti a vuoto, perché non aveva cessato di spiccare dei veri salti di tigre, rendendo quasi impossibile la mira, specialmente ad un uomo ormai completamente ubriaco. In preda ad un folle terrore aveva gridato più volte al fratello: “Fammi grazia della vita, ed io abbandonerò per sempre l’Assam. Sono figlio di tuo padre: tu non hai il diritto di uccidermi”. Il rajah continuava a sghignazzare ed a minacciarlo con un’altra carabina, ma poi, preso forse da un tardivo pentimento, gridò al disgraziato che continuava i suoi salti disperati:

      « “Se è vero che tu abbandonerai per sempre il mio stato, io ti accorderò la vita, però ad una condizione”. «“Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai” rispose subito Sindhia.

      «“Io getterò in aria una rupia e se la bucherai con un colpo di carabina ti lascerò partire per il Bengala senza farti alcun male”. « “Accetto”.

      «“Ti avverto però”, urlò il rajah, “che se mancherai la moneta subirai la medesima sorte degli altri”. « “Gettala!”, gridò Sindhia.

      «Gli fu calata una carabina, poi il rajah fece volare in aria il pezzo d’argento. Si udì subito uno sparo, e non fu bucata la moneta, bensì il petto del tiranno. Il giovane principe aveva voltata rapidamente l’arma contro il fratello, ed essendo un bravo tiratore, lo aveva fulminato con una palla al cuore. Subito i ministri e gli ufficiali si affrettarono a scendere nel cortile bagnato di tanto sangue, e si prosternarono dinanzi al nuovo principe giurandogli fedeltà. Vi ricordate, signora?»

      «Sì, come ricordo che quel novello mostro invece di lasciarmi tornare sulle mie montagne, fra i miei fedeli kotteri, mi fece subito prendere per vendermi poi, segretamente, ad una banda di thup che percorrevano l’Assam», disse la rhani, «e fra i quali mi troverei forse ancora, senza di te, mio signore».

      «Tutto è finito bene» disse Yanez. «Ti ho rapita agli strangolatori, ti ho portata qui, ho impegnato risolutamente la lotta con Sindhia, che già il popolo cominciava ad odiare per le sue crudeltà, e coll’aiuto delle Tigri di Mòmpracem e dei tuoi montanari ti ho dato metà della corona perché spero che un pezzo la lascerai brillare anche sulla mia fronte».

      «Tutta, mio signore!…» gridò Surama, posando le sue mani sulle spalle vigorose del portoghese.

      «Di affari di stato io non mi sono mai occupato, mia piccola reginetta. Preferisco andare a cacciare le tigri e gli elefanti. Yanez gran principe supremo? Sono già maharajah, e ne ho anche di troppo di questo titolo che mi costringe, ogni volta che esco di qui, a salutare cinquantamila o centomila persone. La corona intera la raccoglierà il nostro piccino, se il diavolo non ci metterà la coda, poiché, come ti ho detto, le ruote del nostro carro pare che manchino di grasso. Bah!… La vedremo!… Tu hai i tuoi kotteri sempre fedelissimi, io avrò ancora una volta le Tigri di Mòmpracem, sempre pronte ad accorrere alla mia prima chiamata col loro invincibile Sandokan, e se è vero che Sindhia sia fuggito e che ritenti di riconquistare il potere, avrà da lavorare di denti e di unghie come una bestia feroce». Si tolse da un taschino un orologio e guardò l’ora.

      «Per Giove!…» esclamò, «Già mezzanotte!… Come passa il tempo cospirando, poiché ora noi siamo un po’ i cospiratori. Kammamuri, conduci il baniano in una stanza: gli darai un dubgah fiammante, ma gli metterai due sentinelle alla porta». «Altezza!…» gridò il baniano. «Dubitereste di me?»

      «Niente affatto: prendo solamente delle precauzioni. Capirai che qui si avvelena troppo». «Avete ragione, Altezza». «Gli farai poi dare dal tesoriere della rhani cinquanta rupie». «Sono troppe, Altezza, ve l’ho già detto». «Le metterai da parte per quando non potrai più cacciare topi». «A domani sera?» chiese Tremal-Naik.

      «Sì, dopo il tramonto del sole. Porta lanterne e non dimenticare i due molossi del Tibet». «Guarda quello che fai, mio signore» disse Surama.

      «Spero di passare una bella nottata» rispose Yanez, sorridendo. «Una caccia all’uomo sottoterra, fra acque putride e legioni di topi!… Deve essere assai interessante, E poi questi avvelenatori bisogna assolutamente scoprirli, per Giove!… Quando ne avremo decapitati quindici o venti, vedrai che ci lasceranno tranquilli». Si era alzato.

      Tremal-Naik e Kammamuri uscirono subito conducendo con loro il vecchio baniano, quantunque fossero più che certi della sua fedeltà. Yanez vuotò un’ultima tazza di birra e si ritirò, colla rhani, nel suo appartamento privato, le cui porte erano tutte sprangate e vigilate da rajaputi armati fino ai denti.

      CAPITOLO QUARTO: LA CACCIA AGLI AVVELENATORI

      La sera dopo, appena i gong disposti nei vari quartieri della capitale, avevano suonato il coprifuoco, un drappello formato di dieci uomini, usciva misteriosamente dal palazzo imperiale.

      Era preceduto da due molossi tibetani, superbi animali, robustissimi, di corpo fortissimo, colle labbra penzolanti, che in causa di due ripiegature danno loro un aspetto veramente terribile. Sono grossi quanto un vitello, e posseggono una tale forza muscolare da


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