Il Corsaro Nero. Emilio Salgari

Il Corsaro Nero - Emilio Salgari


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che mai.

      – Venite, miei bravi, – disse il Corsaro a Carmaux e a Wan Stiller. – Credo che avremo il tempo necessario per scambiare due chiacchiere.

      – E quei soldati? – chiese Carmaux, che non era meno stupito degli spagnuoli per il sangue freddo e l’audacia, assolutamente fenomenali del comandante.

      – Lasciamoli gridare se lo vogliono.

      – Andiamo a fare la cena della morte adunque, mio capitano.

      – Bah!… L’ultima nostra ora è piú lontana di quello che tu credi, – rispose il Corsaro. – Aspetta che calino le tenebre e tu vedrai quel barilotto di polvere fare dei miracoli.

      Entrò nella stanza senza spiegarsi di piú, andò a tagliare le corde che imprigionavano il conte di Lerma ed il giovanotto e li invitò a sedersi al desco improvvisato, dicendo loro:

      – Tenetemi compagnia, conte, ed anche voi, giovanotto; conto però sulla vostra parola di nulla tentare contro di noi.

      – Sarebbe impossibile intraprendere qualche cosa, cavaliere, – rispose il conte sorridendo. – Mio nipote è inerme e poi so ormai quanto sia pericolosa la vostra spada. E cosí, che cosa fanno i miei compatrioti?… Ho udito un baccano assordante.

      – Per ora si limitano ad assediarci.

      – Mi rincresce dirvelo, ma temo, cavaliere, che finiranno coll’abbattere la porta.

      – Io credo il contrario, conte.

      – Allora vi assedieranno e presto o tardi vi costringeranno alla resa. Vivaddio! Vi assicuro che mi dispiacerebbe di vedere un uomo cosí valoroso ed amabile come siete voi, nelle mani del Governatore. Quell’uomo non perdona ai filibustieri.

      – Wan Guld non mi avrà. È necessario che io viva per saldare un vecchio conto che ho da regolare con quel fiammingo.

      – Lo conoscete?

      – L’ho conosciuto per mia sventura, – disse il Corsaro, con un sospiro. – E stato un uomo fatale per la mia famiglia e se sono diventato filibustiere lo devo a lui. Orsú, non parliamo piú di ciò; tutte le volte che penso a lui io mi sento il sangue saturarsi d’odio implacabile, e divento triste come un funerale. Bevete, conte. Carmaux, che cosa fanno gli spagnuoli?

      – Stanno confabulando tra di loro, comandante, – rispose il filibustiere che tornava allora dalla finestra. – Pare che non sappiano decidersi ad assalirci.

      – Lo faranno piú tardi, ma forse noi allora non saremo piú qui. Veglia sempre il negro?

      – È sul solaio.

      – Wan Stiller, porta da bere a quell’uomo.

      Ciò detto il Corsaro parve s’immergesse in profondi pensieri, pur continuando a mangiare. Era diventato piú triste che mai, e preoccupato, tanto da non udire nemmeno piú le parole che gli rivolgeva il conte.

      La cena terminò in silenzio, senza che venisse interrotta. Pareva che i soldati, malgrado la loro rabbia ed il vivissimo desiderio che avevano di appiccare e di bruciare vivi i filibustieri, non sapessero prendere alcuna decisione. Non già che difettassero di coraggio, anzi, tutt’altro, o che paventassero lo scoppio del barile, poco importava loro che la casa saltasse in aria; temevano pel conte di Lerma e per suo nipote, due persone ragguardevoli della città e che volevano ad ogni costo salvare.

      Le tenebre erano già calate, quando Carmaux avvertí il Corsaro che un drappello di archibugieri, rinforzato da una dozzina di alabardieri, era giunto, occupando lo sbocco della viuzza.

      – Ciò significa che si preparano ad intraprendere qualche cosa, – rispose il Corsaro. – Chiama il negro.

      L’africano, dopo qualche minuto, si trovò dinanzi a lui.

      – Hai visitato accuratamente il solaio? – gli chiese.

      – Sí, padrone.

      – Vi è nessun abbaino?

      – No, ma ho sfondato una parte del tetto e per di là possiamo passare.

      – Non vi sono nemici?…

      – Nemmeno uno, padrone.

      – Sai dove possiamo discendere?…

      – Sí, e dopo un breve cammino.

      In quel momento una scarica formidabile rintronò nella viuzza, facendo tremare tutti i vetri. Alcune palle, attraversate le persiane delle finestre, penetrarono nella casa, foracchiando le pareti e scrostando le volte delle stanze.

      Il Corsaro era balzato in piedi snudando con un rapido gesto la spada. Quell’uomo, alcuni istanti prima cosí calmo e compassato, sentendo l’odore della polvere, si era trasfigurato: i suoi occhi balenavano, sulle smorte gote era improvvisamente comparso un lieve rossore.

      – Ah!… Cominciano!… – esclamò con voce beffarda.

      Poi, volgendosi verso il conte e suo nipote, continuò:

      – Io vi ho promessa salva la vita e, qualunque cosa debba accadere, manterrò la parola data; voi dovete però obbedirmi e giurarmi che non vi ribellerete.

      – Parlate, cavaliere, – disse il conte. – Mi rincresce che gli assalitori siano miei compatrioti; se non lo fossero vi assicuro che combatterei ben volentieri al vostro fianco.

      – Voi dovete seguirmi, se non volete saltare in aria.

      – Sta per crollare la casa?

      – Fra pochi minuti non rimarrà dritta una sola muraglia.

      – Volete rovinarmi? – strillò il notaio.

      – State zitto, avaraccio, – gridò Carmaux che slegava il povero uomo. – Vi si salva e ancora non siete contento?

      – Ma è la mia casa che non voglio perdere.

      – Vi farete indennizzare dal governatore.

      Una seconda scarica rimbombò nella viuzza ed alcune palle attraversarono la stanza, mandando in pezzi una lampada che vi si trovava nel mezzo.

      – Avanti, uomini del mare!… – tuonò il Corsaro. – Carmaux, và a dar fuoco alla miccia…

      – Sono pronto, comandante.

      – Bada che il barile non scoppi prima che abbiamo abbandonato la casa.

      – La miccia è lunga, signore, – rispose il filibustiere, scendendo la scala a precipizio.

      Il Corsaro, seguito dai quattro prigionieri, da Wan Stiller e dall’africano, salirono sul solaio, mentre gli archibugi continuavano le loro scariche, mirando soprattutto alle finestre ed intimando, con urla acute, la resa.

      Le palle penetravano dovunque, con certi miagolii da fare venire i brividi al povero notaio; scrostavano larghi tratti di parete e rimbalzavano contro i mattoni; i filibustieri però, e nemmeno il conte di Lerma, uomo di guerra anch’esso, se ne preoccupavano gran che.

      Giunti sul solaio, l’africano mostrò al Corsaro una larga apertura irregolare che metteva sul tetto, e che egli aveva fatta, servendosi d’una trave strappata ad una tramezzata.

      – Avanti, – disse il Corsaro.

      Ringuainò per un momento la spada, s’aggrappò ai margini delle squarciature ed in un istante si issò sul tetto, girando all’intorno un rapido sguardo.

      Scorse subito, tre o quattro tetti piú innanzi, delle alte piante, dei palmizi, uno dei quali cresceva addosso ad una muraglia, spingendo le sue splendide e gigantesche foglie sopra le tegole.

      – È per di là che ci caleremo? – chiese al negro, che lo aveva raggiunto.

      – Sí, padrone.

      – Potremo uscire da quel giardino?

      – Lo spero.

      Il conte di Lerma, suo nipote, il servo ed anche il notaio spinto in alto dalle robuste braccia di Wan Stiller, erano già tutti sul tetto, quando Carmaux comparve, dicendo:

      – Presto,


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