Il tesoro della montagna azzurra. Emilio Salgari
tonnellate. Era discesa in mare cinque anni prima dai cantieri di San Francisco di California e aveva al suo attivo un bel numero di viaggi. Durante le più terribili tempeste se l’era sempre cavata con onore, opponendo agli assalti delle onde i suoi poderosi fianchi di quercia californiana. Pareva però che i giorni felici stessero lì lì per finire per quella splendida nave che formava l’ammirazione di tutti i marinai di Valparaiso, poiché l’uragano s’annunciava spaventoso anche per la vicinanza della Nuova Caledonia, tristamente famosa per la violenza terribile dei suoi tifoni, temutissimi da tutti i naviganti dell’Oceano Pacifico. Serrate le rande e le controrande e parte delle vele dell’albero di trinchetto, don Josè insieme al bosmano, il quale funzionava ad un tempo da mastro d’equipaggio e da secondo si erano messi in osservazione sul castello di prora, spiando ansiosamente la nube nera che continuava ad allargarsi nel cielo con una rapidità straordinaria.
– Che brutta tinta! – esclamò Reton, che di nubi e di cicloni se ne intendeva non meno del capitano. – Piomberà su di noi con tuoni e fulmini e Dio sa che razza di raffiche ci scaglierà nei fianchi! Là dentro ci sono cento di quei colpi di vento che noi marinai del Cile e delle isole del sud, chiamiamo i willwawns; scommetterei una piastra contro la mia vecchia pipa.
– Willwawns! – ripeté una voce dietro di loro.
Il capitano si era voltato, dicendo
– Oh, voi don Pedro! Anche voi, señorita Mina?
Un bel giovine di circa venticinque anni, di statura non troppo alta, tutto muscoli e nervi, con la pelle bruna e gli occhi pieni di fuoco, che indossava un elegante costume di flanella bianca, il classico vestito da viaggiatore, si era accostato dando il braccio a una ragazza che dimostrava sedici o diciassette anni, dai lineamenti fini e bellissimi, con capelli lunghi e neri e la pelle bianca con quei riflessi alabastrini, indefinibili, che si osservano solo sulla pelle delle creole.
– I Willwawns! – ripeté don Pedro. – Ma non siamo già fra le isole delle terre magellaniche.
– Eppure i salti di vento, che soffiano in questa parte del Pacifico, non sono meno pericolosi di quelli che scendono dalla Cordigliera, mio caro don Pedro, – rispose il comandante. – Non faranno certo piacere a vostra sorella: è vero, señorita?
Il viso della fanciulla era diventato un po’ scuro ed i suoi bellissimi occhi, profondi e neri, si erano offuscati.
– Non amo né le vostre onde, né i vostri vènti, – disse poi, sforzandosi a sorridere.
– Siamo quasi al termine del viaggio, señorita.
Un brusco salto della nave, accompagnato da una serie di sibili violentissimi, interruppe la loro conversazione. Un’ondata mostruosa che pareva fosse sorta dalle profondità dell’oceano, si era rovesciata bruscamente sull’Andalusia scotendola come un guscio di noce. I volti del capitano, di don Pedro e del bosmano erano diventati oscuri, mentre quello di Mina si faceva in quel momento pallidissimo. Fra i sibili del vento si era udita in quel momento la voce sempre allegra di Emanuel.
– Bolle la gran tazza! – gridava il mozzo – Avanti la musica! Io sono pronto a far ballare la sarabanda. Eccoci alla fiera!
Poi quel diavolo di ragazzo che si teneva ritto sulla coffa, lanciò in viso alle raffiche che cominciavano a scuotere l’alta alberatura, con una magnifica voce di tenore:
– Muchos van a la feria
Aver, y no compran nada.
– Alonzo portami il bandolin che faccia l’accompagnamento.
– Ehi, lassù, taci imbecille! – gridò il bosmano.
– No, no, – rispose Emanuel, ridendo – Sono un mozo cocido per voi.
Il capitano e don Pedro, che apparivano preoccupatissimi, non avevano prestata alcuna attenzione a quello scambio d’insolenze. Solo Mina aveva sorriso e aveva guardato con ammirazione il suo mozzo come lo chiamava, che scherzava così, ai primi colpi della tempesta. Un dialogo rapido si era impegnato a voce bassa fra don Josè e don Pedro.
– Uragano terribile, un vero tornado, – disse il primo.
– Non occorre essere marinai per accorgersene, – rispose il secondo.
– Voi che siete figlio di un uomo di mare e che ve ne intendete, prendete il comando di prora. Io sorveglierò i timonieri.
– Avete fatto il punto a mezzogiorno?
– Sì, don Pedro
– A che distanza siamo dalla costa?
– A centocinquanta miglia dalla baia di Bualabea.
– Se potessimo trovare un rifugio prima che scoppi l’uragano?
– Non ci sono rifugi qui, – rispose il capitano. – E poi ci mancherebbe il tempo. Riconducete vostra sorella nel quadro e poi venite subito al vostro posto. Questo strano ribollimento del mare mi fa sospettare la formazione di qualche terribile tromba marina… Fate presto, don Pedro e non perdiamo la testa.
Mentre il capitano si preparava freddamente alla lotta, l’oceano diventava sempre più minaccioso. Quantunque dopo le prime raffiche e l’ondata formidabile fosse subentrata una calma relativa, l’equipaggio era inquieto. La tempesta stava formandosi e raccoglieva tutte le sue forze. Il sole, prossimo al tramonto, era diventato scialbo; l’aria si faceva fosca e il nuvolone nero si dilatava avanzando verso levante. Stormi di uccelli marini passavano sopra l’Andalusia, mandando lunghe strida e fuggivano, rapidi come saette, in direzione della Nuova Caledonia, per cercarsi un rifugio fra le scogliere prima che il vento li travolgesse. Tutti quei volatili, quantunque abituati a sfidare le formidabili tempeste dell’oceano Pacifico manifestavano, con la loro fuga disordinata e vertiginosa, un vero spavento.
– Scappano troppo veloci, – mormorò il bosmano, scuotendo la testa. – La notte sarà una delle più terribili e preferirei trovarmi al sicuro nella mia casetta di Asuncion.
Erano le sette di sera e il sole si era appena tuffato in mare, quando la voce del capitano echeggiò sul banco di quarto.
– Al posto di manovra! La guardia franca lasci le brande!… L’uragano s’avvicina!
Quasi nello stesso tempo si fece sentire anche la voce energica di don Pedro.
– Due mani di terzaruoli sul trinchetto e sul parrocchetto! Giù il grande fiocco!
Il mare lanciava in tutte le direzioni ondate biancastre e vorticose che si colorivano stranamente degli ultimi riflessi del crepuscolo. Mentre l’oceano cominciava ad entrare in convulsione, le raffiche incalzavano sempre più impetuose con urla ora rauche ora stridenti, accompagnate da mille fischi, che talvolta, fra i muggiti dei marosi, rassomigliavano a grida umane invocanti soccorso. E intanto l’enorme nube, diventata nera come l’inchiostro, avanzava, avanzava più minacciosa, più terribile, senza che un lampo la illuminasse. Se mancavano i tuoni, si udivano però dei fragori strani, come se una grandinata furiosa s’abbattesse nelle vicinanze. L’Andalusia, con la velatura ridotta fuggiva verso nord, avendo ormai il vento girato da levante a ponente, rompendo di quando in quando la rotta, per fare una lunga bordata verso nord-ovest per non derivare troppo e venire cacciata in mezzo al Pacifico meridionale. L’oscurità diventava di momento in momento più densa, poiché anche la luce crepuscolare era scomparsa, accrescendo così l’orrore della tempesta. Una vaga inquietudine si era impossessata di tutti dal capitano all’ultimo marinaio. Solo Emanuel, che forse non prevedeva la violenza di quel ciclone, sembrava tranquillo, poiché di tratto in tratto, quando i williwawns diminuivano d’intensità, si udiva scendere dalla coffa del trinchetto la sua voce squillante che cantava sempre: Muchos van a la feria… ciò che faceva andare in bestia il bravo bosmano. Certo quell’indiavolato ragazzo voleva dimostrare al vecchio lupo che era veramente figlio di un buon marinaio e che non era affatto un mozo cocido. Reton era però tutto occupato a vigilare i timonieri in compagnia del capitano e ad osservare lo stato del mare. La sua grossa testa ancora irta di capelli non interamente grigi, e ispidi come i peli di una bestia in furore, non cessava di scuotersi da destra a sinistra. Pareva un vero orso bianco.
– Va