La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi

La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi


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rancesco Domenico Guerrazzi

      BATTAGLIA DI BENEVENTO

      STORIA DEL SECOLO XIII

      … Io son Manfredi

      Nepote di Gostanza imperatrice

Dante

      Non avrei tanto tardato a dar luogo nella Biblioteca nazionale a questa opera di F.-D. Guerrazzi, s’egli avesse avuto prima d’oggi facoltà di cedermene il diritto. L’indugio però fu largamente compensato dalle cure poste ora dall’Autore intorno a questa Opera della sua giovinezza, che nell’angustie del carcere (com’egli stesso dicevami) rilesse con inesprimibile amore, volgendo omai il trentanovesimo mese della sua prigionia.

F. Le Monnier. Giugno 1852.

      AL BENEVOLO LETTORE

      Quando Omobuono Martini milanese riprodusse co’ suoi tipi la Battaglia di Benevento, a me piacque preporle un Discorso intorno alle ragioni della Letteratura moderna in Italia, e il Libro e il Discorso dedicai alla egregia donna Signora Angelica Bartolomei nata Palli. Comparendo adesso questa opera nuovamente alla luce per le stampe di Felice Le Monnier senza Discorso e senza Dedica, parmi cosa dicevole manifestarne la causa, onde uom non creda, che per sopraggiunto pentimento io gli abbia voluti omettere. Per certo, come la fama della illustre donna per la mia Dedica non aumentò, così nemmeno, per sopprimerla ch’io mi facessi, punto diminuirebbe: tuttavolta, tôrre quello che una volta si diè, e sia pure povera cosa, non sembra onesto; ed a me poi recherebbe gravezza grandissima, ove altri pensasse alterata verso Lei la mente, che un dì mi persuase a renderle, giusta le forze mie, quel tributo di onore. Anzi, poichè per questa guisa mi viene schiusa la via di favellare delle Dediche preposte alle altre opere mie, mi par bene valermi del destro per tenere proposito di tutte con brevissime parole.

      A Niccolò Puccini io dedicava la Veronica Cybo in pegno di antica amicizia, ed ebbi sempre in pensiero intitolare al suo nome opera di maggiore momento, ch’Egli lo meritava pur troppo; ma mi mancò il tempo, e forse me ne sarebbe mancato anche lo ingegno. Di questo mio difetto mi consola ampiamente conoscere come Egli abbia saputo, troppo meglio che non saprebbero fare opere d’inchiostro, raccomandare la propria fama ai posteri, dando, se non unico, radissimo esempio del modo col quale hassi ad amare il Popolo di vero amore: avvegnadiochè di due cose abbisogni principalmente il Popolo, di esempii buoni, e d’insegnamento, che di parole ormai che cosa farsi non sa, tante ne furono sprecate, quasi tutte invano; talune poi, peggio che invano. Di questa verità udii sovente porgere testimonianza allo stesso Puccini, il quale con quel suo vispo linguaggio soleva dire, che i fatti erano maschi, e le parole femmine. Intitolando a lui il mio Libro, io volli pertanto rendere omaggio al savio cultore della carità verso il prossimo, ed allo amatore della Patria zelantissimo; onde fra le amarezze, di cui non è penuria nel turpe carcere, acerba mi percosse quella di non potere, come avrei voluto, dettare del morto amico sincerissima qual Ei non temeva, e quale a me non sarebbe riuscito concepire diversa, la Orazione funeraria. Ma poichè farlo liberamente mi era conteso, mi parve degno tacere; e così, ne vado persuaso, sembrerà anche allo spirito di Lui, se pure lo toccano le miserie alle quali noi siamo, infelicissimi, rimasti.

      E tanto più duolmene, in quanto che a veruno poteva per avventura riuscire quanto a me di palesare al mondo il cuore ch’Egli ebbe, e certo poi a nessuno più che a me ne correva obbligo religiosissimo. Talora vagando insieme con Lui pei silenzi della notte nelle sue sale solitarie, a parte a parte mi apriva gli affanni che contristarono la sua infanzia, e le angoscie pungenti che gli derivarono dalla infermità miserabile di cui pure la Natura non lo aveva percosso… e spettacolo veramente portentoso era e lacrimevole a un punto contemplare come tanta copia di amaritudine non fosse bastata a corrompere le acque dolcissime della sua esistenza, nè il rigido alito della tristezza a spegnere la sua fede; – le lotte, le cadute, il rilevarsi più gagliardo, e il proponimento osservato fino al termine della vita di adottare per figliuolo il Popolo intero, dacchè le gioie di marito e di padre Ei si vietava; contemplare insomma quello affannarsi indefesso a mescere intera la sua grande anima nell’anima del Popolo, onde ei se ne avvantaggiasse. E se ne avvantaggerà, però che il Popolo abbia viscere di gratitudine, e se mai avvenga che traviato o corrotto da consigli pessimi prorompa in offese a danno dei suoi benefattori, presto si pente, e piange, e adora mutate in oggetto di culto le vittime del suo furore: – altri non si pente mai, nè piange.

      La morte, che immatura colpì quel caro capo, se non prodotta, fu per lo meno assai accelerata dalla sventura sopraggiuntagli per cagione mia, e fu questa. Apprendendo quel gentile con inestimabile fastidio, come gli Accusatori miei si fossero prevalsi a danno mio di certe sue lettere a me dirette nella festosa giocondità del suo spirito, non mise tempo fra mezzo a scendere giù dal Castello della Cavinana dov’erasi ridotto a circondarsi di ombre e di memorie, per cercare fra le sue carte le lettere che io con gravità di consiglio gli era venuto rispondendo, e quante gliene capitarono a mano tante me ne mandò: compito l’ufficio, nel tornarsene alla stanza del Castello infelice, i cavalli aombrando su di una erta diruparono con la carrozza a precipizio dentro un burrone: comecchè Ei restasse semivivo sul colpo, pure si rilevò, porgendogli anche cotesto infortunio argomento per manifestare lo amore suo verso il Popolo, il quale con ogni maniera di pietoso aiuto lo sovvenne; ma da quel giorno in poi Egli non ebbe più bene, e conobbe soprastargli il fato supremo, nè punto gliene dolse, anzi desiderò essere morto quattro anni avanti… E adesso siamo pochi. chi per un verso, chi per un altro, che come Lui non desideriamo; e dei superstiti, beati quelli cui verrà concesso morire senza rimorso, e senza vergogna…

      L’antivigilia della sua morte, rinvenuto da lungo svenimento, quel gentile spirito ricordò di me, e commise al Medico, che in nome di Lui mi scrivesse, e mi offerisse quelle consolazioni le quali tornano grate sempre, da chiunque si muovano; se poi da amico, gratissime. Ricevuta appena la lettera, non mi trattenni un momento per rispondere come la stupenda cortesia dell’atto persuadeva… e non pertanto, ahimè! egli era tardi, imperciocchè io scrivessi ad un cadavere…

      A Giovambatista Niccolini io dedicai il volume degli Scritti varii, e nel dedicarglielo lo salutai la migliore coscienza d’Italia; e tale fu, e tale si rimase, e si manterrà certamente, avvegnadio se da un lato quotidiani esempii c’insegnino come uom non possa celebrarsi incontaminato prima dei suoi funerali, dall’altro piaccia e giovi credere quanto sentenziò Sofocle nel Filottete, – che i cuori grandi non può fare a meno, che non sieno anche buoni; – e di vero, se lo inclito concittadino nostro sia più grande o più buono tu pendi incerto, comecchè grandissimo e buonissimo il mondo lo veneri meritamente. Cotesto suo intelletto pacato, senza ira come senza sdegno, dalla sapienza dei tempi ricavò la dottrina che tenace professa, onde non è da dirsi quanto rimanesse sbigottito sì, non iscosso, dal fragore di eventi che parvero prima, e poi sperimentammo mostruosi: molti ancora dei suoi amici vecchi a Lui oggimai declinante nella bene adoperata vita andavano susurrando dentro le orecchie: «Tu hai sbagliato…» Allora l’austero vecchio tacque crollando il capo, e tenne per fermo, e tenne bene, che co’ morti di Santa Croce non si sbaglia, e lasciò dire i vivi.

      Amareggiato nella mente quando i casi parevano dargli torto, Egli si sentì ferito nel cuore allorchè tornarono a dargli ragione; però non pose giù sul pavimento l’animo invitto, e, richiamate le ispirazioni antiche, diè opera a tale impresa (se la fama porge il vero) che gli uomini vedranno maravigliando, conciossiachè vivano, ma rari, intelletti nel mondo, che non conoscono tramonto; e Niccolini è tra questi.

      Non senza supremo consiglio la Provvidenza ordinò, che in questi luoghi vivesse Vittorio Alfieri, ed ora viva Giovambatista Niccolini, ponendo in certa guisa più gagliardi i puntelli là dove è minacciata la mina maggiore; e se costoro non erano, chi sa fin dove il Popolo nostro si sarebbe sprofondato nell’abiezione, che il tempo vile appella civiltà!

      Dura pertanto questa Dedica, e la ragione della Dedica; e con essa dura il rammarico di avere presentato così povera offerta al genio tutelare della dignità toscana.

      Ad Angelica Bartolomei nata Palli intitolai la Battaglia di Benevento. Nacque Ella in Livorno di greca stirpe, e giovanissima ancora, tanto le vennero a grado le greche e le italiane lettere, che potè leggere l’originale greco di Omero in quella età in cui, troppo più che non vorremmo, fanciulle italiane appena appena sanno compitare un libro nel paterno idioma. Di forti sensi dotata, la giovanetta fu udita improvvisare tragedie, di cui talune vanno


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