La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi
sguardo alla figlia de› Re? Quali sono le sue speranze? Confida che la vergine del sangue svevo piegherà il cuore fino a lui? Conosce i pericoli, pensa ai tormenti che sono per occorrergli? Egli ama, e disperatamente ama.
Ma i suoi sguardi da lungo tempo insensibili a quanto di più solenne gli profferiva la Natura, si affissano a un tratto su la magione del figlio di Federigo. Il castello capuano sembrava veramente dimora da Re: ma se per la mole appariva quale la creatura memore esser parte del Creatore può immaginare, per la sua fortezza era pur quale il tiranno nell›agonia della paura può eleggere: conciossiachè Guglielmo il Tristo della stirpe normanna a difesa della propria vita lo fabbricasse. Mura grossissime. frequenti torrioni, cavalieri, baloardi, e tutti gli accorgimenti che l’arte nel dodicesimo secolo consigliava, erano stati adoperati per sicurare il tiranno tremante: ma invano! – dove la vendetta degli uomini manchi, veglia il giudizio di Dio: egli moriva, e non di ferro: ma la sua stirpe fu spenta; il trono fondato dal valore di Roberto Guiscardo, e dal Conte Ruggiero, cadde sotto la eterna giustizia, che i delitti di Guglielmo I fece scontare allo sventurato Guglielmo figlio di Tancredi Conte di Lecce.
Federigo II volle rendere più lieto il castello, allorchè, condusse, a Napoli Niccola Pisano, il più grande artefice del suo secolo, e gli commise la cura di adornarlo. Ma il genio dell’architetto piegò suo malgrado alla vista dello edifizio che migliorava, e i suoi trovati non fecero che aumentarne l’orrore. – Così l’armonico Trovatore se nel silenzio della notte si avvisa cantare la canzone giocosa, gli sfuggono suo malgrado mestissime note, e finisce con la ballata del dolore.
La luna, che tutta lieta di trascorrere i cieli, non cura se in terra sia maladetto o benedetto il suo raggio, e lo diffonde sul volto dell’amante che accelera col desio l’ora del colloquio di amore, e sul volto del sicario che si slancia dalla tenebra, stende il colpo, e ritorna nella tenebra, manda la sua luce sul castello capuano. Le parti illuminate di questo edifizio sembrano anche più grandi pel contrasto delle ombre in cui le altre parti sono sepolte. Alcuni torrioni paiono non aver fondamento sulla terra, e starsi così sospesi per l’aria; altri mezzo rovinati; e presentano alla fantasia uno di quei castelli che i romanzieri descrivono nelle loro leggende: dove gli spiriti maligni si ragunano a celebrare il nefando sabbato e a inebbriarsi di sangue. La calda immaginazione dell’osservatore può vedere avvolgersi per quelle rovine lo
spettro di Guglielmo il Malvagio condannato a visitare la casa da lui eretta, abitata da stirpe non sua; e può sentire il singulto dell’ira, o della coscienza, ch’ei manda nella disperazione dell’anima.
Tale era lo edifizio che il giovane considerava. Poichè l’ebbe con lentissimi sguardi e più volte misurato, scosse la testa, e parlò: «L’opera della tirannide è grande quanto l’opera della generosità… La paura ha dato il suo sublime, come lo ha dato la pompa… il buono e il tristo produssero parimente le maraviglie del volgo, che sono la compassione della debolezza umana per coloro che han cuore. – Santa Maria! Che cosa egli è mai questo castello? Che i tesori che trovò Manfredi in Luceria? Che la potenza di Federigo Barbarossa, e di Federigo II? Essi non poterono conquistare la Italia: quegli fu arrestato da mura di creta e di paglia; questi disfatto da gente, dalla quale si allontanava per non vedere la morte. E poi che sarebbe l’impero d’Italia, quello del mondo? Potresti essere il più grande di tutti i mortali, ma pur sempre mortale; il più forte tra gli uomini: – ma chi vanta nel braccio la forza del turbine? Il più sapiente dei figli della terra: – ma chi ha lo intelleto dei figli del cielo? Pure l’anima mia potrebbe questo sentimento che mi travaglia la vita obliare o almeno lenire, dove potessi posare la testa sul seno… di cui? Non l’ho io nominata? Non sono i passi di uomo questi che si allontanano? – No… tutto è tranquillo. Fino tremare di nominarla! O capuano! io sarei contento delle tue mura; o soglio del mio Re, comunque angusto, mi giungeresti ben grato, dove io mi vi potessi sedere con quella che ho fatto donna dei miei pensieri? Io ho amato sempre il trono perchè mi sento nato per quello: ora poi questo desiderio è diventato furore, perchè in altro modo che sul trono non si può vivere con lei… nè, se si potesse, il vorrei… Ma io sono un oscuro… nudrito per pietà in casa non mia, costretto a servire con mente da dominare… non conosco padre nè madre… e devo tremare di conoscerli, perchè forse il mio nascimento va macchiato con nota d’infamia.»
E qui tacque: un pallore mortale gli si diffuse pel volto: stette immobile con intentissimi sguardi, e con la bocca mezza aperta, come il tormentato dalla sete; giù per le guancie gli trascorrevano grosse stille di sudore che gli scaturivano frequenti dalla fronte, quasi spremute dal cervello compresso dall’angustia. Dopo alcun poco il sangue tornò impetuoso per modo a infiammargli la faccia, che le vene inturgidite e i muscoli dilatati pareano doversi spezzare alla violenza del moto: allora tutto il suo corpo si agitò convulso, e si pose ambe le mani sul capo quasi per impedire che si rompesse. Stato tanto miserabile non poteva prolungarsi più oltre, ed egli cadde gemendo sopra un sedile di pietra.
«Oh questo non può durare,» dopo lunga ora riprendeva in fievole accento «non può durare, nè durerà. – Poichè la morte è certa, proviamo morire con ardimento, e sveliamoci. – Con ardimento! Ma questo potrebbe fruttare l’onta del rifiuto; e mentre stimava morire da generoso, sarò sprezzato dall’orgoglio, e forse vilipeso come stolto. Santa Maria! Che vita è questa dove la pratica di una virtù partorisce il frutto del delitto, e la pratica del delitto la mercede della virtù? Chi è il sapiente che ne ammaestra a distinguere l’uno dall’altra? Chi quegli che ne insegna in che cosa consistano? Il delitto di questo secolo stimarono e stimeranno il delitto dei secoli futuri? Virtù che mi nuoce è sempre virtù? Devo praticarla a mio danno? Dove ha scritto la natura le sue leggi? – Nel cuore? Io sovrappongo la mano al cuore, ma egli palpita al sussulto delle passioni. – Che serve meditare su la ragione della necessità? Meglio vale subirla con le mani incrociate sul petto, e starci a vedere che cosa ne viene. Così farò.
– Dunque sono io tanto sventurato? La mia memoria non può ricordare nulla che giovi a blandire con le illusioni un’anima lacerata da tante angoscie reali?– Oh! bello lusinga il regno delle immagini, ma il loro fascino è come quello del serpente; questo finì col peccato, quelle finiscono coll’inaridire la mente che a loro si abbandona. – Pure il giorno che il suo genitore assunse la corona de’ Re, ella lasciava cadere ai miei piedi la grimpa che le cingeva la persona: io la raccolsi… e meco trionfò nel torneo… ed ora mi posa sul cuore, e sarà la compagna della mia vita, e mi coprirà la faccia nella fossa.– E il giorno del torneo? O sola luce dei miei anni passati! Oscuro donzello, ricoperto di maglia, coi colori della figlia di Manfredi, mi confusi tra i superbi Baroni e capitani famosi, ed osai giovinetto giostrare di lancia co’ maestri dell’arte, con cavalieri incliti per mille prove, e vinsi. Rimaneva il prode Conte Giordano di Angalone: ci affrontammo; ei cadde rovesciato sopra la polvere. Egli ne dette la colpa alla cinghia della sella, e sarà, ma cadde. – Io mi nascosi, egli ebbe il premio della giostra, dacchè il vero vincitore non si presentava; nè io lo invidiai, chè mi parea avere più alto premio conseguito che il suo non era, – l’amore della figlia del Re. – E il giorno veniente? Oh! non dimenticherò mai il giorno dodicesimo di agosto. Io le guidai il bianco palafreno: – ella in salendo pose la sua nella mia mano… e tremò… ed io pure tremai, ed arrossii. – Ma ed ella arrossì? Io non osai sollevare gli sguardi. Oh! quella fu gioia, e… forse fallace. Chi sa che il velo non cadesse per caso? Chi mi assicura che il suo tremore non venisse da pericolo di caduta? o piuttosto da sdegno del mio tanto ardimento? Il sangue svevo ribolle superbo: ma se orgoglio facesse lignaggio, io pure mi sentirei sangue di Federigo. – E quando ella inchinandosi dalla sua altezza m’interrogasse: chi sei? – Chi sono? – Uno ignoto a me stesso, e ad altrui; un respinto per la colpa materna dal seno dello stesso genitore, un monumento vivente del peccato, una onta a me, una vergogna ai miei. O chiunque voi siate che mi donaste una vita che non avrei accettata giammai, dove si potesse rifiutare di nascere, grandi devono essere stati i vostri peccati, perchè atroce è la pena che ne porto!»
Così parlava il travagliato, alternando la vicenda del dolore e della gioia, allorchè la natura lo sovvenne con la stanchezza, e il bisogno del riposo lo costrinse a sedersi. Le sue labbra presero ad articolare le note di una mesta ballata, e la mente seguace dell’armonia si deliziò nei concenti divini, nati e custoditi sotto il cielo d’Italia. – All’anima confortata si affacciò quindi il suono delle imprese guerresche: