La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi

La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi


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gli amici?… Essi son molti nel tempo felice: nè in ciò io accuso gli uomini, no; la natura ha posto nel nostro cuore una voce che grida: sii felice solo: nè io già gli maledico come spietati; poichè sia bello salvare l’amico, ma dove non tel concedano i casi tu non devi amare l’amico più di quello che ami te stesso. E tu, mia diletta Gismonda, che meco fosti nutrita e cresciuta, e che un vincolo di scambievole amore unisce meco in fraterna corrispondenza, tu stessa a cui adesso sembrano nulla il disagio, il vituperio, e la morte, rispetto al dovermi abbandonare per sempre, tu pure un giorno mi dimenticherai.»

      Gismonda vinta dal dolore non rispose; chinò la testa, e grosse lacrime le ricorsero agli occhi: gli socchiuse l’affettuosa per nasconderle alla vista di Yole. ma la passione nol sofferse: tornò a sollevarli verso la sua donna; e non vedendola commossa, la piena del cuore gittato ogni freno proruppe. Un singhiozzare frequente dimostrava quanto grande fosse stata la offesa per la gentil damigella.

      Yole la sogguardò, e soggiunse: «Ella è così… l’uomo s’offende al detto di quello che deve praticare col fatto. Un senso arcano e generoso, cui non sappiamo da qual parte ci venga, ne ammaestra che partecipare lo infortunio con l’amico è bene, ma la natura nol consente, chè non ne ha conformati in guisa, che il nostro più fiero nemico sia il patimento, e più possano in noi gli strazii dell’angoscia, che non le lusinghe dell’amore… Ella è così; nè io voglio accusartene, o mia dolce Gismonda; il fallo proviene da più alta cosa che non sei tu. Chi è che osi contrastare al grido della natura? Noi non siamo da tanto, nè io vorrei da te più di quello che puoi darmi. Gismonda, mia cara Gismonda! se alcuna cosa ti ho mai fatto di grato; se la mia memoria sarà tale che possa dilettare la tua mente, io ti prego, che quando in questo stesso castello la voce del nuovo signore ti chiamerà a stare appresso alla sua consorte, od alla figlia (poichè tu sei il più nobil sangue del Regno), se mai avvenga che acciecate dalla vittoria rigettino le preghiere degl’infelici, e dall’altezza in che le pose la fortuna schivino chinarsi al gemito che si solleva dalla polvere, rammenti a costoro ch’esse pure sono di polvere. – mutabile cosa essere la fortuna: – e poi soggiungi: era il sangue di Svevia quanto quello di Francia famoso: era la figlia di Manfredi anch’essa illustre, e pure il Trovatore e il Menestrello non avevano canzoni che tanto la dilettassero, quanto le parole interrotte e le lagrime dell’infelice confortato. E se il mio nome varrà a vincere l’orgoglio dei cuori, e dalla via della superbia dirizzare le avventurose sul sentiero del paradiso, sarà questo il gaudio più profondo che giunga all’anima mia, dovunque piaccia al mio Creatore collocarla. E dove mai la nobile consorte o la figlia del Conte avessero cuore che palpita alle miserie dell’umanità, e sorridessero del mio sorriso, allora amale, Gismonda, amale come mi amasti: non turbarle giammai col racconto delle mie triste vicende, nè col mio nome sminuire una gioia che il Signore non mi ha voluto concedere, e che a loro, siccome più meritevoli, ha compartita. Ma quando lontana da tutti, ridotta nella tua segreta cameretta, potrai liberamente trattenerti nella memoria degli anni che furono, oh! allora, mia cara Gismonda, allora donami un sospiro… un pensiero… una lagrima… Certo io conoscerò quella lagrima, e con una lagrima ti risponderò.»

      Qui si rimase la bella addolorata: e mestamente volgendo gli sguardi, vide tutte le suo damigelle confuse di vergogna, e la gentile Gismonda in tale stato da non potere più intendere tanto disperate parole. Tacque: un lungo silenzio si sparse per la sala: i doppieri mandarono una pallida luce su quelle donzelle atteggiate in sembianza di pianto. – Pareano statue d’illustre artefice destinate ad ornare le tombe dei potenti.

      Yole, poichè lungamente stette pensosa, si scosse a un tratto, corse, si recò in braccio Gismonda, e con amore materno la confortava, o col suo proprio lino le sue lagrime asciugava: quindi con piacevole voce riprese:

      «Oh! non piangere, Gismonda, non piangere. Malaugurata colei che sforza al pianto la faccia della bellezza! – Santa Vergine! la mia miseria soverchia l’anima mia, e mi conviene trasfonderla in altrui. – Madre degli afflitti! già troppe mi trafiggono amarezze, – bastino. Io sono innocente; ma s’è destinato ch’io beva il calice delle pene, non consumi meco i giorni della sua gioventù questa cara donzella. – Sia la mia causa separata dalla sua: io sola soffrirò per lei, pei miei parenti, per tutti.»

      Gismonda si rimase dal piangere, e chiamando su i labbri il sorriso, comunque una lagrima le tremolasse tuttavia tra le lunghe palpebre, corrispose allo abbracciamento della nobile Yole, e in atto soave le disse:

      «Voi non mi affliggete, nè potete affliggere nessuno, voi solo mia gioia, unica e diletta amica mia, quando anche la sorte avesse posto tra noi lo spazio che passa tra vassallo e il barone, le anime nostre avrebbero sentito lo scambievole desiderio. Comunque pensiate di me, io vi amo, Yole, vi amo, quanto si può amare cosa terrena dopo Dio, e i suoi Santi. Ma per quanto amore portate alla gran Donna del cielo, calmate quel vostro disperato dolore… Oh! se sapeste quale affanno mi travaglia qui dentro» ed accennava il seno «nel vedere a poco a poco inaridire la fonte della vostra vita, il fiore della vostra giovanezza appassire, e le floride guancie impallidire, e quei begli occhi oscurarsi… certo, benigna come siete, vi provereste a non apportarmi tanto sconforto. Oh! il vostro dolore, concedete che ve lo dica Gismonda, non muove cosa che si tema, bensì cosa da lungo tempo avvenuta. Il Conte di Provenza non si partiva ancora da Marsilia; nè egli parmi persona da temersi poi tanto, sebbene il Vaticano lo benedica, e lo armi contro di noi: e dove fosse da temersi, il pericolo non successo vuole fermezza di cuore, non pianto, che questo torna inutile prima che la sventura accada; dopo, ridicolo e codardo. La figlia del Re Manfredi non si sente tale… Da più alta cagione che questa non è, traggono origine cotesti furori: una cosa che ormai non istà più in potere della ragione e del tempo,… un sentimento profondo invano represso, forse…»

      «Gismonda!» riprese Yole, fattasi pel volto e pel seno tutta vermiglia, «si danno arcani che l’amico non può dire all’amico; che ricercarli in ogni nome è indiscretezza e crudeltà, nei Sovrani delitto. Hanno i Regnanti segreti che non possono svelare a persona, perchè a noi più che al rimanente degli uomini dette il cielo un senso squisito di dignità. Al Conte Ruggiero e alla sua nobile consorte, assediati sul monte Etna, rimase un solo mantello reale; essi non pertanto non mostrarono la loro nudità, ma ora l’uno, ora l’altro si fecero vedere in pubblico sempre vestiti del manto che non può onestamente tralasciare l’altezza del sangue. – Se il mio segreto fosse stato da svelarsi, a te più che altrui avrei voluto manifestarlo; ma da che mi piacque non dirtelo, guardati bene dal cercare di saperlo. Ti basti questo, che dove la mia destra lo rivelasse alla mia sinistra, io vorrei subito mozzarla.»

      La damigella le stette dinanzi sbigottita, come quella che non aveva mai inteso tanto acerbo rimprovero. Yole gravemente aggiungeva:

      «Porgimi il velo, Gismonda; sento il bisogno di aere più puro. – Voi tutte restate, Gismonda sola mi accompagni nel giardino.»

      Gismonda corse ad eseguire il comando; ma confusa, mal sapendo che si facesse, tolse quel velo stesso che assunse Yole allorchè si seppe in corte la morte di Corrado, e glielo porse senza sollevare gli sguardi.

      Lo vide Yole, e mesta sorrise: poi premendo leggermente il braccio a Gismonda: «Accetto l’augurio» le disse «che mi viene dalla eletta del cuore.» – E tolto il velo se lo avvolge alla persona, e s’incammina ai giardini reali.

      Gismonda, sollevati gli occhi, si accorge dell’errore, prorompe in un grido sommesso, e segue la sua donna asciugandosi col dosso delle mani le pupille lacrimose.

      Potevano avere di appena venti passi trapassata la porta, allorchè le damigelle, gittando via quella mentita sembianza di afflizione, si mossero festose qua e là per la sala, alternando mille lieti ragionamenti. Adelasia di Ansalone, damigella di forme leggiadre, e di cuore vano. sopponendo al suo braccio quello d’Isolda Cavella, sorridendo le disse: «In verità, Isolda, io non ho mai in mia vita pianto siccome oggi; neppure allorchè la mia zia Contessa Serena, di gloriosa memoria, nelle lunghe sere d’inverno, mi poneva nella sala del castello di Campobasso presso il focolare dei suoi maggiori.»

      «Oh! per me poi» soggiunse Isolda «sento che il pianto ristora; non l’onoriamo noi come segno di cuore tenero? Quello che adorna l’anima, deve ornare anche il corpo.» E così dicendo si sciolse dal braccio di Adelasia, e presa una tersissima lastra di argento si pose tutta leziosa a mirarvi dentro la propria immagine.

      «Domine,


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