La crociera della Tuonante. Emilio Salgari

La crociera della Tuonante - Emilio Salgari


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quasi ultimate cinque navi: l’Alfredo di 32 cannoni; il Colombo pure di 32; l’Andrea Doria di 16; il Sebastiano Caboto di 14 e la Provvidenza di 12.

      Appena la corvetta ebbe dato fondo e gettato un ponte volante, parecchi uomini uscirono dal forte muniti di lanterne e di fucili. Sugli spalti gli artiglieri, per tema d’una qualche sorpresa, soffiavano sulle micce dietro ai loro pezzi. Il Corsaro ed il suo secondo, che si erano affrettati a scendere a terra, esclamarono giocondamente:

      «Il colonnello Moultrie!»

      «E come potevo non trovarmi qui a difendere l’opera che porta il mio nome?» rispose l’eroico soldato, che tanto aveva operato per far cadere Boston. «Buona sera, Baronetto; buona sera, signor Howard. Giungete in buon punto.»

      «Perché, colonnello?» chiese il Corsaro.

      «Perché domani la squadra inglese tenterà di cacciarci via. Sono stato avvertito da alcune spie.»

      «Mio caro, abbiamo lasciato il nostro albero maestro in mezzo al mare.»

      «Fuggito il Marchese?»

      «Purtroppo! Le sue artiglierie ci hanno arrestati in piena volata.»

      «Un albero si fa presto a rimetterlo.»

      «E lord Howe?»

      «Fuggito verso il nord.»

      «Credo che quegli uomini andranno a dare dei grossi fastidi a Washington intorno a New York.» E dopo un breve silenzio soggiunse: «Se la vostra Tuonante ha perduto un albero, avrà ancora, spero, sempre in buono stato i suoi superbi pezzi che hanno fatto una così splendida prova alla foce della Mistica. Sir William, conto su di voi e sui vostri bravi marinai. Più tardi ci occuperemo di questo signor Marchese, e sapremo scovarlo. Ve lo prometto sul mio onore.»

      «Allora son pronto a combattere per la causa americana,» rispose il Baronetto con voce energica.

      In quel momento si udirono le sentinelle collocate sui bastioni gridare: «Allarmi!»

      «Di già il nemico?» chiese il signor Howard.

      «Non me l’aspettavo così presto; tuttavia noi siamo pronti a sostenere l’attacco prima che la fregata venga ingrossata da qualche altra proveniente dall’Europa.»

      Punti luminosi solcavano le cupe acque della baia cambiando sovente direzione. Erano le navi inglesi, che tentavano di sorprendere il forte di Moultrie e possibilmente distruggerlo. Ma gli Americani, che si aspettavano quella mossa, avevano prese grandi precauzioni, facendo occupare il forte Johnson, che guardava i canali di Charlestown, dal reggimento stanziale della Carolina, affidando a quei valorosi la difesa dell’isola di Saint-James. Molti canali erano stati sbarrati con grosse trincee e batterie galleggianti, e i magazzini che sorgevano sulle rive erano stati incendiati per impedire che gl’Inglesi vi si annidassero e potessero ancora minacciare Boston. Il generale Lee, nel quale i combattenti avevano grandissima fiducia, era pure giunto a marce forzate con altri stanziali, occupando numerose isole. Così la lotta, un momento sopita dopo la caduta della capitale del Massachussets, stava per riprendersi con novello furore, quantunque ormai i diecimila soldati di lord Howe fossero già lontani e nell’impossibilità assoluta di portare soccorso a quelli che erano rimasti nella baia.

      Il Corsaro ed il suo luogotenente si erano affrettati a tornare a bordo della corvetta per prepararsi al combattimento che doveva essere certamente terribile.

      Avevano appena dato l’ordine di lanciare la guardia franca nelle batterie, quando alcuni spari rimbombarono in lontananza.

      «Ohe, camerati!» gridò Testa di Pietra. «Bagnatevi il muso, perché fra poco qui farà un bel caldo. Pioverà, ma saranno palle infocate quelle che ci cadranno addosso. Io, per mio conto, preferirei gli acquazzoni delle Bermude. Sono abbondanti, sì, ma più salubri.»

      3. Il valore americano

      La Marina inglese, rabbiosa di aver assistito senza far nulla alla resa di Boston, moveva animosamente all’attacco del forte, che era di grave imbarazzo alle navi provenienti dall’Atlantico, coi rinforzi attesi da lord Clinton, il quale combatteva nelle Caroline con scarsa fortuna. La squadra era composta del Bristol e dello Sperimento, navi quasi di linea, armate di cinquanta pezzi ciascuna e delle fregate Attiva, Altione, Solebay e Sirena di ventotto pezzi; di più vi si erano aggiunti due legni minori da otto, fra cui uno chiamato il Fulmine, nave da bombarde.

      Vi era grande aspettativa tanto da parte degli Americani che degl’Inglesi. Ma questi ultimi si trovarono dinanzi a un grave ostacolo: il canale che fronteggiava l’isola di Sullivan era interrato e rendeva estremamente pericoloso il passaggio alle navi troppo grosse. In previsione di ciò, il generale Clinton, che era rimasto a Charlestown, da dove gli Americani non erano ancora riusciti a cacciarlo, aveva raccolte le poche truppe, per la maggior parte di arrolati tedeschi che aveva sottomano, e le aveva concentrate sull’Isola Lunga, situata a levante di quella di Sullivan, perché, al momento opportuno, assalissero il forte alle spalle, poco difeso da quella parte, e distruggessero soprattutto i cantieri. Il colonnello Moultrie, che insieme al generale Lee aveva disposto un magnifico servizio d’informatori, ne era stato subito avvertito. E il pericolo era gravissimo, poiché il forte, assalito da due parti, nonostante il suo grosso armamento di fronte, poteva essere furiosamente distrutto. Non vi era che un uomo solo che potesse proteggerlo alle spalle: il Corsaro. Difatti la sua corvetta, ferma attraverso il canale, sarebbe forse bastata a tenere indietro Scozzesi, Assiani e Brunswickesi coi suoi grossi cannoni da caccia e i ventiquattro pezzi delle batterie. Inoltre pure, avendo dinanzi il forte, coi suoi quattro mortai, che servivano in quel momento da zavorra nella stiva, con tiri d’arcata poteva danneggiare la squadra inglese.

      Un ufficiale fu subito mandato a bordo della Tuonante, la quale si preparava a sostenere gagliardamente gli Americani.

      «Doppio fuoco!» disse semplicemente il Baronetto colla sua calma abituale. «Avete udito, signor Howard?»

      «Sì, sir William.»

      «Farete dunque portare in coperta i mortai che già gl’Inglesi conoscono; spiegare i fiocchi ed un paio di vele e salpare le ancore. Il vento si presta a portarci verso l’Isola Lunga.»

      Ad un comando dato col fischio, alcuni uomini si slanciarono chi verso gli argani, chi verso l’alberatura, chi nella stiva, il cui boccaporto maestro era stato aperto per issare i mortai.

      La squadra inglese si moveva in quel momento, cannoneggiando debolmente. Il timore d’incagliare sui banchi di sabbia o dar di cozzo contro dei tronchi d’albero, vere trincee acquatiche, delle quali gli Americani facevano buon uso, la rendeva previdente. E così la corvetta aveva avuto tempo di eseguire le sue manovre e di prendere posizione dietro il forte, in modo da impedire agl’Inglesi il passaggio dall’Isola Lunga a quella di Sullivan. Anche il colonnello Moultrie aveva avuto il tempo di far trasportare tutti i suoi pezzi sui bastioni di fronte, per battere lo specchio d’acqua che stava dinanzi al forte.

      Ora le cannonate cominciavano a succedersi le une alle altre. Lampi e lampi illuminavano la baia, riflettendosi sulle acque tenebrose con bagliori sinistri.

      Quello che gli Americani avevano già previsto, accadde.

      Le due più grosse navi inglesi, il Bristol e lo Sperimento, troppo pesanti per avventurarsi in quei pericolosi canali, si erano fatte avanti per proteggere le genti che Clinton aveva radunate sull’Isola Lunga, ma dopo qualche bordata andarono a finire sugli scanni di sabbia, che in quel luogo erano assai numerosi, e si sbandarono sul tribordo, rendendo subito inservibili le batterie grosse da quel lato. Tuttavia gli equipaggi inglesi, nonostante l’oscurità della notte e le prime palle che il forte cominciava a lanciare, gettando ancorotti a prora e rinforzando le vele, in poco tempo si trassero dal cattivo passo, e allora il fuoco cominciò su tutta la linea. Ma pareva che la squadra non avesse fretta di dare addosso al forte.

      Erano le quattro del mattino del 28 giugno, quando il Fulmine, protetto da un altro legno armato, cominciò risolutamente l’attacco, gettando bombe e palle infocate dentro il forte. Rispondevano vigorosamente gli artiglieri americani, ormai abilissimi anche nel maneggio dei pezzi grossi, e tonava soprattutto la corvetta


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